Enigmatix, i segreti di Roberto Magris

Foto: la copertina del disco










Enigmatix, i segreti di Roberto Magris.

Roberto Magris, triestino, è uno dei nostri pianisti più rappresentativi all’estero. Ha realizzato un numero impressionante di dischi e tenuto concerti dall’Europa all’Australia. È anche direttore musicale della JMood Records, casa discografica jazz di Kansas City. Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo ultimo disco intitolato “Enigmatix”, un lavoro che è stato accolto molto positivamente dalla critica specializzata e dal pubblico.



Jazz Convention: Roberto Magris, la tua anima di jazzista è divisa in due tra Italia e Stati Uniti. Come la vivi da triestino?


Roberto Magris: In realtà è divisa tra Europa e Stati Uniti, dal momento che il mio retaggio culturale è nella Mitteleuropa ed io sono più “un prodotto” della scena jazz centroeuropea che della scena jazz italiana, della quale oggettivamente non ho mai molto fatto parte. Le mie relazioni e connessioni sono sempre state a livello europeo, con la significativa eccezione della critica jazz italiana, che invece mi ha sempre seguito ed apprezzato. Negli Stati Uniti ormai sono di casa e in Europa vengo sempre considerato molto “americano”, come pianista. Per contro, però, quando suono negli Stati Uniti, non ho mai rinunciato al mio approccio “europeo” al jazz, portatore di certe situazioni di apertura e libertà musicale di cui negli Stati Uniti non sono in genere molto abituati, perché al di fuori dei canoni tradizionali del jazz che viene insegnato nelle loro scuole.



JC: Cosa vuol dire essere direttore musicale di una casa discografica statunitense?


RM: Significa sostanzialmente tradurre concretamente le scelte artistiche del produttore in musica e dirigerne la realizzazione. Io sono il direttore della JMood Records, la jazz label di Kansas City e Paul Collins, il produttore, detta a monte le regole (ad esempio: fare un disco sui pianisti storici dell’epoca bebop oppure rivisitare in modo aggiornato il mondo musicale di Lee Morgan). Il mio ruolo è quello di tradurre in pratica e realizzare o sovraintendere alla realizzazione delle musiche e degli arrangiamenti, anche al fine di dare una omogeneità ed una linea musicale propria all’etichetta. È un ruolo che ben conosco, avendo diretto per alcuni anni l’Europlane Orchestra, l’orchestra jazz dei paesi centroeuropei, nella quale si sono alternati numerosi musicisti, ognuno con la sua personalità, ma fermo restando il sound originale dell’orchestra.



JC: Quali sono le tue radici musicali, come definisci il tuo essere jazzista che possiede una “own voice”?


RM: Le mie radici musicali, sotto traccia, sono nella musica classica romantica (Mendelssohn, Schubert e gli autori russi di fine ‘800), che ho studiato da ragazzo. Le mie radici musicali nel jazz sono Coltrane-Ornette-Mingus-Parker-Duke/Strayhorn. Come pianista jazz, potrei individuare i miei riferimenti stilistici in una linea Powell-Monk-Tyner-Andrew Hill. La mia “own voice” consiste in un approccio pianistico basato sulla scomposizione ritmica delle frasi e su un’improvvisazione di tipo verticale, nella quale mi piace prendere ogni rischio, suonando “senza rete”. Mi ha sempre sorpreso il fatto che molti pongano l’accento sulle qualità virtuosistiche del mio pianismo, a cui io invece non sono molto interessato. Comunque anche quest’aspetto mi fa piacere, naturalmente.



JC: Dai tributi a Lee Morgan a Aliens In A Bebop Planet, come si è evoluta nel corso degli anni la tua discografia?


RM: Sono arrivato a quota ventisette dischi, di cui ben dodici realizzati negli USA, per una etichetta americana, e tutti a mio nome. Penso sia un record per il “jazz italiano”. Ascoltando questi ultimi dodici Cd “americani” forse si può sentire o ci si può immaginare una evoluzione. Sì, senz’altro c’è, ma, in realtà, la spiegazione è più complessa. Alcuni cd sono frutto della scelta a monte del produttore (i tributi, rivisitazioni e gli incontri con alcune figure storiche del jazz), altri cd invece sono frutto di una mia completa libera scelta musicale (Aliens in a bebop planet ed Enigmatix). Tutti mi appartengono perché ovviamente sono sempre io a suonare, ma alcuni mi appartengono di più perché vi ho potuto calare anche il mio background europeo e l’apertura e curiosità intellettuale che ne deriva.



JC: Tu hai inciso non solo dischi da leader ma hai anche registrato e collaborato con importanti jazzisti di tutto il mondo, cosa ci puoi raccontare di queste esperienze, cosa ti è rimasto dentro, e che cambiamenti ha subito la tua musica?


RM: La mia musica ha sempre cambiato e sempre cambierà, perché cerco di rimanere costantemente in sintonia con il mondo nel quale vivo. Le collaborazioni con grandi maestri del passato, quelle più strette sono state forse quelle con Herb Geller in Europa e con Art Davis negli Stati Uniti. Queste mi hanno portato la conoscenza dal “di dentro” della tradizione del jazz. Ed ho potuto capire che, all’inizio così come alla fine, il fondamento del jazz è il ritmo, a cui poi segue la melodia. L’armonia è una conseguenza di questi due elementi. Capire questo e metterlo in pratica mi ha consentito di cogliere la vera essenza del jazz e di trasferirla nella mia musica.



JC: Il tuo ultimo disco si chiama Enigmatix. Il titolo lascia pensare che dentro vi sono racchiusi dei segreti. Quali sono, ce li puoi svelare?


RM: Ce ne sono alcuni proprio musicali, che all’ascolto forse sfuggono ai più. Per esempio, il brano intitolato J.F No Key non è nient’altro che Just Friends in “no keys” (senza tonalità), suonato con una improvvisazione tematica che scavalca ed ingloba le progressioni armoniche. Poi, in altri brani, vi sono parti sovraincise di basso elettrico e di contrabbasso, secondo una mia pianificazione a monte, in un contesto musicale che appare logicamente “normale”, ma che in realtà non lo è affatto. Poi, ci sono soluzioni “enigmatiche” ad esempio nel rovesciamento del concetto del trio, con il piano che suona degli ostinati e il contrabbasso che invece è solista, c’è My cherie amour di Stevie Wonder in cui il “cherie” è tramutato in una “urgenza” e tensione che vuol dare all'”amour” un significato ed un “pathos” originale. C’è infine l’enigma del brano Enigmatix che è in sintonia “spirituale”, e per certi versi anche musicale, con certi esperimenti e sonorità di Andrew Hill, in un contesto aggiornato di groove, con una totale libertà di fraseggio del piano da implicazioni armoniche, che sono sotto intese. Per cui, sotto la scorza apparente del «mi sembra di aver già sentito cose del genere» anche se non suonate prima da Magris, in realtà ci sono tanti nuovi input ed indizi per chi ha orecchie per ascoltare e cultura jazzistica per capire. Viste le ottime recensioni uscite a livello internazionale, fortunatamente sono molti di più di quelli che pensavo.



JC: Oltre ad essere un pianista e arrangiatore, sei anche un compositore: cinque dei sette brani di Enigmatix sono scritti da te.


RM: Io ho sempre pensato che nel jazz il musicista suona la sua musica. Anche quella che non ha composto lui, una volta suonata, diventa sua, nella sua versione. Quei cinque brani sono molto diversi tra loro, soprattutto No sadness che ho inciso tre volte in tre dischi diversi ed in versioni completamente diverse, ogni volta reinventandolo (negli anni ’90, con il mio quartetto, qualche anno fa assieme ad Herb Geller in versione “Westcoast”, ed ora, dopo aver scritto anche il testo, in versione vocale).



JC: Poi hai scelto due cover, una di Stevie Wonder e l’altra degli Steely Dan…


RM: Di una ti ho parlato prima, dell’altra, quella degli Steely Dan, devo dire che Do it again è un brano accattivante che ho sempre amato e mi pareva calzasse perfettamente a conclusione di questo progetto enigmaticamente trasversale o trasversalmente enigmatico che dir si voglia.



JC: Il disco è in quintetto: ci parli dei tuoi musicisti?


RM: La sezione ritmica l’ho vista letteralmente crescere: il contrabbassista Dominique Sanders è più giovane dei miei figli e il batterista Brian Steever poco più vecchio. Li ho visti provare, studiare, crescere e maturare. Secondo me sono dei talenti notevoli che spero si affermeranno presto ai massimi livelli; ne hanno le potenzialità e se lo meritano anche perché sono dei gran bravi ragazzi, aperti e positivi. Il percussionista Pablo Sanhueza è un cileno di Santiago che vive da molti anni a Kansas City dove è un personaggio autorevole della scena musicale. Tra noi si è subito instaurato un “feeling” latino e l’ho voluto alle congas e percussioni in diversi dei miei dischi ed anche dal vivo nel mio gruppo americano. Mi piace moltissimo suonare con la formazione del trio più percussioni e capisco perfettamente Ahmad Jamal che l’ha proposta per primo negli anni ’50 e praticamente non l’ha più abbandonata. Anche la cantante Monique Danielle è un prodotto della vivissima e prolifica scena jazz di Kansas City ed è presente in tre dei miei cd americani. A dispetto delle differenze d’età stiamo tutti molto bene anche fuori dal palco e dallo studio di registrazione, grazie al reciproco rispetto e stima e all’allegria dei giovani, fatta di battute, sempre nuove trovate, messaggini e giochetti sul cellulare.



JC: Che definizione dai della musica suonata in Enigmatix?


RM: Propositiva. Frutto di quell'”improvisational approach” che io chiedo sempre ai miei musicisti.



JC: Il futuro prossimo di Roberto Magris?


RM: Ci sono già nel cassetto della JMood due cd pronti ad uscire; entrambi ancora con il mio trio più percussioni e vocals in qualche brano, sull’onda dell’ottimo successo internazionale avuto da Enigmatix quest’anno. Il primo cd che uscirà nel 2016 si intitolerà Need to bring out love, un invito a tirare fuori l’amore in questo mondo ormai pieno di guerre, profughi e problemi. L’omonima title-track è cantata e penso e spero che girerà per un bel po’ nelle radio jazz americane. Poi, è pronto a uscire anche World Gardens, che contiene alcune novità musicali che però non ti voglio svelare ora, altrimenti che gusto c’è?. Per intanto, quindi, ancora buon ascolto di Enigmatix!



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