Solaris: il pianeta jazz riletto da Cristiano Arcelli

Foto: Fabio Ciminiera










Solaris: il pianeta jazz riletto da Cristiano Arcelli


Si chiama Solaris il nuovo disco di Cristiano Arcelli in trio con Stefano Senni al contrabbasso e Bernardo Guerra alla batteria. È un disco particolarmente riuscito e interessante sia per l’insolita formazione (sax alto più ritmica) sia per le concezioni musicali che lo innervano, poeticamente accennate nel titolo, mutuato dall’omonimo e bellissimo libro di Stanislaw Lem (portato sullo schermo da Andrej Tarkovskij e da Steven Andrew Soderbergh, e di cui è stato protagonista George Clooney).


Con Cristiano ho parlato di questo progetto che sta muovendo i suoi primi passi.


Cristiano Arcelli: Faccio questo mestiere praticamente da quando avevo quindici anni e oggi ne ho quasi quaranta. In questo lungo periodo mi sono fatto un nome, soprattutto come compositore e arrangiatore. Ho maturato diverse esperienze. Per tutte citerò quelle con Gabriele Mirabassi che è stato anche mio insegnante al Conservatorio di Perugia e con Cristina Zavalloni, due artisti molto poliedrici e aperti. Ho anche collaborato a lungo con l’Egea, un’etichetta di frontiera, che produce musiche basate sull’incontro di vari linguaggi. Dopo questo accumulo di esperienze ho sentito la duplice necessità di misurarmi come strumentista e di ritornare alla mia “lingua madre” che è il jazz. Per questo ho scelto il trio. Misurandomi con basso e batteria non potevo nascondermi, ero obbligato a stare sotto i riflettori, a farmi giudicare come sassofonista. Oltretutto l’alto, così distante dal basso crea molti più problemi di un tenore, ma dà anche molta più libertà. Poi volevo confrontarmi, senza mediazioni o “contaminazioni” con le mie radici jazzistiche. E ho scelto due compagni bravissimi, di quelli che ti tengono sempre sotto pressione.



JC: Nel libro, che potremmo definire di fantascienza filosofica, che dà il nome al tuo disco, Solaris è un immenso pianeta, una massa fluida che ha la capacità di evocare negli astronauti che lo esplorano figure e situazioni della loro vita. Soprattutto quelle con cui non hanno fatto definitivamente i conti. Solaris materializza addirittura persone scomparse, che hanno avuto parte importante della vita dei protagonisti


CA: Proprio così. Solaris è un gigantesco giacimento ed elaboratore di memorie. Credo che il jazz sia qualcosa di simile. Specialmente quello innovativo nato dopo la seconda guerra mondiale. Da allora si cominciò a improvvisare su materiale originale che tuttavia era basato su vecchi standard. Ornitology in qualche maniera è un mascheramento di How High The Moon. E una composizione nuova basata sulla memoria di una precedente. Tutti noi quando componiamo o improvvisiamo lavoriamo con il ricordo di quello che ci ha preceduto. Non possiamo prescinderne. Io stesso elaboro spesso delle idee musicali che poi accantono e che poi ritrovo quando lavoro a nuovi progetti. E molti di quei materiali sono memorie di musiche precedenti. Il risultato finale è qualcosa di nuovo e di diverso. Le figure elaborate dal pianeta sognato da Stanislaw Lem non sono esseri umani veri e propri ma aggregazioni di neutrini. E noi jazzisti lavoriamo sul passato trasformandolo, in un gioco continuo di ricordi e rielaborazioni. E il jazz è un mondo sterminato e magmatico che evoca sempre qualcosa d’inaspettato. Un’entità fluida con cui non si riesce mai del tutto a chiudere i conti.



JC: Da molto tempo qualcuno, ha sostenuto che il jazz sia oramai una musica incapace di rinnovarsi. Cosa ne pensi. Il pianeta jazz è ancora vitale, come Solaris?


CA: Direi proprio di sì. Indubbiamente c’è stato un periodo di appannamento. Gli anni ’60 e 70? hanno creato tantissime situazioni di innovazione: Miles, Trane, Ornette, Mingus e tanti altri hanno aperto strade nuove. Poi negli anni ’80 c’è stata una stasi. Molti maestri sono invecchiati o scomparsi. La società civile andava incontro al cosiddetto riflusso e il jazz, in qualche modo ha cominciato a languire. Permettimi un ricordo personale. Vivendo a Perugia ho seguito sempre Umbria Jazz. Ricordo un concerto di Joe Pass quando avevo quindici anni. Un maestro di stile e “classicità”, ma che all’epoca mi era sembrato un po’ datato. Alcuni anni dopo ho sentito John Zorn: una folgorazione. Quel mix di jazz ornettiano, di melodie Yiddish, di musica contemporanea diceva che la musica improvvista era ancora viva, che c’erano strade da percorrere. Oggi il panorama è brulicante. Ci sono addirittura scuole nazionali di jazz. Oltre agli americani ci sono gli scandinavi, gli italiani. Ognuno, sull’esempio di Zorn e dell’avanguardia newyokese è ripartito dalle sue radici e le ha immerse nel magma jazzistico. Altri hanno agito al contrario. Steve Lehman è partito dal jazz poi ha studiato a Parigi con gli spettralisti. In Italia abbiamo giovani come Francesco Diodati, Mattia Cigalini, Daniele Tittarelli. Tutti giovani e tutti già motivatissimi a cercare un loro stile, un loro linguaggio. È davvero un bel momento.



JC: Eppure c’è chi continua a parlare di tradimento, di svilimento del jazz.


CA: Certo, anche di Bird si dissero le stesse cose. Anche Ellington fu accusato da qualcuno di aver abbandonato la purezza del jazz. Lo stesso fu detto di Ornette e d’altri maestri. Ma il jazz, per sua natura è musica in movimento. Non si tratta di rinnegare la tradizione. Io ho studiato furiosamente tutto Ellington e lo ritengo uno dei miei maestri. Ho amici carissimi Berlino e tutte le volte cha li vado trovare non manco di recarmi a sentire i Berliner. D’accordo con le innovazioni, ma io sento il bisogno di confrontarmi non solo con Ellington ma anche con la grande cultura classica. Quello del conflitto fra tradizione e innovazione è un falso problema. I colleghi più anziani che sostengono che senza blues e/o swing non si dà jazz non hanno torto. Resta da discutere se esista una sola nozione di queste due categorie. Andrebbe precisato poi un altro dato. Coleman è molto più vicino alla tradizione di quanto si pensi, cosi come Stravinsky era più semplice e meno cerebrale del più venerato Mahler. Lee Konitz è molto più cerebrale e “non jazzista” di Ornette. Ho vissuto a lungo con mia nonna che non aveva alcuna preparazione musicale. Adorava Ornette. Quello che conta è che hanno suonato insieme facendo scintille. Afro bossa di Ellngton è un disco che sembra scritto domani.



JC: Torniamo al libro. Quali dischi ha materializzato il tuo personale approccio al Solaris Jazzistico. Che ombre hai evocato?


CA: Io sono diplomato in sax alto al Conservatorio. Al termine degli studi ho avuto una sorta di rigetto verso questo stumento e mi sono dedicato a lungo il tenore. Tuttora la mia voce sull’alto è influenzata da questo dato. Mi piace suonare sulle zone scure, sulle frequenze basse. Nella lista dei miei sassofonisti preferiti ci sono soprattutto tenoristi. Quindi il primo disco che mi viene alla mete è la Freedom suite di Sonny Rollins. Ne ho un vero e proprio culto. Le “fonti altistiche” cui ho attinto sono invece Triology di Kenny Garrett, il trio di Ornette con David Izenzon e Charles Moffett, tutti i pianoless di Konitz, un disco di Jackie McLean con Ornette alla tromba (Old and New Gospel). Poi molti piano trio, a partire, ovviamente da quello di Bill Evans. Mi sono serviti per studiare ed apprendere la forma specifica del trio jazz.