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Alessandra Farro e il jazz.
Il bianco, il nero e il jazz è il romanzo d’esordio di Alessandra Farro, avvenuto nel 2012 a soli ventun anni per la prestigiosa editrice Tullio Pironti di Napoli: un libro, tra l’altro, scritto anche prima, in cui però si può già constatare una raggiunta maturità espressiva e, traslati, numerosi interessi culturali, come quello per il jazz, di cui l’autrice stessa, in quest’intervista inedita, parla a Jazz Convention, svelando anche il suo intimo rapporto con il sound afroamericano.
Jazz Convention: Alessandra, ci parli brevemente del nuovo primo romanzo, in cui, fin da titolo, compare la parola “jazz”?
Alessandra Farro: Il bianco, il nero e il jazz è il mio primo romanzo pubblicato, che ho scritto tra i 17 e i 18 anni. Non ha una data e luogo precisi a cui il lettore può fare riferimento e l’unico locale che ci troverà di mezzo ha colori fluorescenti e una band che suona del rock. È una storia che racconta uno spaccato di vita di quattro ragazzi ventenni, musicisti, che decidono di incentrare totalmente la loro vita sulla musica. Di mezzo, poi, ci finiranno storie d’amore, sentimentalismi di famiglia e una lista lunghissima di canzoni che fanno da colonna sonora. C’è il jazz a scandire i ritmi della protagonista, Say, e c’è anche tanta altra musica, tranne il pop, quello non l’ho mai digerito molto. Cerca di essere un manuale al contrario sull’adolescenza, con tanta musica, una citazione sull’alcol all’inizio di ogni capitolo e qualche testo in inglese sparso qua e là.
JC: Ora, così, a bruciapelo ci sveli chi è Alessandra Farro?
AF: Alessandra Farro è venuta al mondo ben ventiquattro anni fa, nella ridente Napoli. Ha studiato pianoforte per sei anni, poi ha provato a cantare, ma non è andata tanto bene, allora ha provato con l’ukulele. L’ha chiamato Johnny, se l’è portato a Parigi e l’ha rotto. Adesso ne ha un altro, Joe Strummer, che non sa ancora suonare alla perfezione, ma che, almeno, le è servito per imparare una cara lezione: mai mettere un ukulele in una valigia da stiva. Per il resto, ha cominciato a scrivere più o meno quando ha sviluppato le facoltà per farlo, ancor prima, però, ha imparato a disegnare. Infatti, non c’è storia che abbia scritto, che non sia stata prima raccontata attraverso le immagini. Alessandra ha una passione smodata per il caffè, quello della moka che borbotta, e per l’odore dei libri. Scrive per il quotidiano napoletano Roma e per il magazine online fuoriposto.com, oltre a studiare una cosa che si chiama “legge”, e che lei non sembra capire tanto bene delle volte, nonostante sia ormai quasi alla laurea.
JC: Mi racconti ora il tuo primo ricordo del jazz?
AF: Il mio primo ricordo del jazz non è tanto giovane. Avevo all’incirca tredici, forse quattordici anni, quando lo ascoltai per la prima volta – lo ascoltai davvero. Un mio amico sassofonista, fissato per Charlie Parker, mi fece ascoltare Now’s the time, me ne innamorai. Era il mio periodo punk, quindi la differenza di genere fu notevole.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una scrittrice?
AF: Penso che da qualche parte devo piazzarle tutte quelle storie che immagino. Così, all’età di dodici anni, mentre stavo leggendo un romanzo, l’ho allontanato un attimo dal naso, l’ho studiato per bene, e ho pensato: «Ora ci provo anche io». Da lì non ho mai smesso. Più scrivo, più devo scrivere, il che è deleterio per il resto delle cose che compongono la mia esistenza, ma ormai loro se ne sono fatte una ragione e pure io.
JC: E i motivi che ti hanno spinto ad ascoltare e ad amare il jazz?
AF: La sensazione che mi procura ascoltarlo. Ogni fibra del mio corpo è sull’attenti, segue i balzi delle note. Si rilassa quando la melodia rallenta, sorride quando aumenta. Il jazz mi racconta milioni di storie.
JC: Cos’è per te la scrittura?
AF: La scrittura è come se rappresentasse un’estensione di me, in lettere e punteggiatura. Ringrazio ogni giorno di poter inventare una storia su una cameriera sudamericana che lavora in un pub irlandese in Svizzera, perché io non sarò mai sudamericana e, altrimenti, non potrei immaginare cosa si prova ad esserlo.
JC: E cos’è per te il jazz? Quali sono i tuoi musicisti preferiti?
AF: Per me il jazz è furia e quiete, amore e dolore, che straborda di energia. Ora, elencarli tutti potrebbe essere un po’ eccessivo, elencherò i dieci “pezzi di cuore” che più mi hanno segnata negli anni. Bill Evans, Miles Davis, John Coltrane, Louis Armstrong, Duke Ellington, Thelonious Monk, Lyle Mays, Herbie Hancock, Pat Metheny ed Ella Fitzgerald.
JC: Hai mai notato affinità tra il fare jazz e lo scrivere?
AF: In qualche modo, entrambi si basano sull’improvvisazione. A un certo punto, nella scrittura di una storia, non sei più tu a muovere i personaggi che crei, sono loro che ti portano verso il proprio destino. Comunque, una risposta più esaustiva può darla Boris Vian, scrittore e jazzista, nonché grande amico di Duke Ellington, attraverso un periodo del suo romanzo La schiuma dei giorni: «Questa volta aveva scelto un disco davvero appropriato. Era Chloé arrangiata da Duke Ellington. Colin stava mordicchiando i capelli di Chloé dietro all’orecchio. Mormorò: “È esattamente come lei”». E questo è esattamente quello che intendo io.
JC: Come scrivi: quaderno, bloc-notes, computer, tablet o altro?
AF: Ho un taccuino, che cambia ogni mese, e che è sempre senza righe, in modo che i pensieri non si sentano costretti tra le linee. E poi ho un computer, che è sempre lo stesso da quattro anni, su cui trascrivo tutto quello che mi può servire dal taccuino (lo sto facendo anche in questo momento per rispondere alle domande).
JC: Hai luoghi o momenti della giornata che privilegi per scrivere?
AF: Dipende dalla mia collocazione geografica e dalla stagione. Mi spiego meglio, se è inverno o autunno, mi piace scrivere dalle dieci di sera in poi nella mia stanza. Se è autunno o primavera, mi piace scrivere di pomeriggio, in un bar/galleria d’arte nel Centro Storico di Napoli, il Nea, perché ha della buona musica e fiori sempre freschi a ogni tavolo. Se, invece, è estate, probabilmente mi trovo in Puglia, dove ho una casa, e allora ho un assoluto bisogno che di fronte a me ci sia un albero di ulivo. Perdermi nei garbugli scomposti dei suoi rami, mi riordina le idee. Comunque, ci ho ripensato su quella cosa che solo d’inverno o d’autunno mi piace scrivere in camera mia di notte, mi piace farlo sempre.
JC: E c’è per te un libro-culto tra quelli che hai letto?
AF: Oddio, questa è davvero la domanda più difficile fino ad adesso. Posso dirne almeno cinque? Perché già soltanto cinque sono un numero infinitissimamente basso, ma mi rendo conto che questa intervista non può assomigliare a un trattato di fisica quantistica in termini di lunghezza. La schiuma dei giorni di Boris Vian, per cominciare; Alice nel paese delle meraviglie e Alice attraverso lo specchio (che valgono per uno) di Lewis Carrol; Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams (tutti e cinque); Un segno invisibile e mio di Aimee Bender; Sacré Bleu di Christopher Moore (questi ultimi due li ho finiti da poco e li ho amati in modo incommensurabile).
JC: E ci dici anche tre titoli di album jazz che porteresti sull’isola deserta?
AF: Sta diventando veramente complicata questa intervista. Okay. Kind of Blue di Miles Davis, perché è stato il primo vinile che ho comprato quando mi hanno regalato il giradischi; Harlem Speaks di Duke Ellington e Ella & Louis di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong, poi, come potrei sopravvivere senza John Coltrone è un’altra faccenda…
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella cultura e nella vita?
AF: Di “menestrelli” ne ho avuti tanti esistenti o meno. Ad esempio, Bukowski mi ha insegnato a essere cinica (e a non bere troppo whisky); Margaret Mazzantini l’importanza della nuca, che è il fiume della vita; Janis Joplin a trovare qualcosa che ci faccia sentire liberi (e pure lei a bere poco whiskey); Notting Hill che «La felicità, non è felicità senza una capra che suona il violino» e Chagall ad amare quella capra che suona il violino; i Rage Against the Machine ad arrabbiarmi (e pure loro ad andarci piano col whiskey) e lo yoga a calmarmi; mia madre a crederci, crederci sempre.
JC: Come vedi la situazione in generale della cultura oggi nel nostro Paese?
AF: Credo che ci siano dei centri in cui la cultura è davvero protagonista, e altri in cui bisognerebbe prima capire cosa sia. Diciamo che, in generale, spero che i primi abbiano la meglio sui secondi, perché l’Italia, come Paese, non si meriterebbe nulla di diverso, trasudando cultura da ogni città.
JC: Cosa stai progettando per l’immediato futuro?
AF: Grazie al cielo per “l’immediato futuro”, perché oltre non saprei guardare al momento. Progetto di laurearmi e di riuscire a pubblicare due romanzi che ho finito, uno, tra l’altro, molto vicino al jazz. In più, progetto di imparare a ballare il rock and roll e di comprarmi un cavalletto e delle tele, perché forse è arrivato il momento che la smetta di dipingere sui muri.