Andrea Pedrinelli. La canzone a Milano

Foto: La copertina del libro










Andrea Pedrinelli. La canzone a Milano

Ulrico Hoepli Editore. 2015


La canzone a Milano è il nuovo libro di Andrea Pedrinelli, musicologo e firma di Avvenire. Pedrinelli ha presentato il libro al Teatro Litta di Milano lo scorso 23 novembre con uno spettacolo che ha avuto come duo “residente” Carlo Pastori e Walter Muto e tantissimi ospiti tra cui Franco Cerri, autore della prefazione al libro, Luca Ghielmetti, Pietro Montalbetti dei Dik Dik, Ricky Gianco, Memo Remigi, le sorelle Gorni, Franca De Filippi, Carlo Fava. Abbiamo avuto modo di incontrarlo per parlare con lui del suo libro qualche giorno prima della presentazione.



Jazz Convention: Raccontiamo come ti sei avvicinato alla musica e quale è stato il percorso che ti avvicinato alla musica.


Andrea Pedrinelli: Io sono nato a Milano nel 1970, in zona Navigli. Fare il giornalista è stato il mio sogno sin da bambino e ho iniziato proprio dalle colonne dello spettacolo e della musica. Curiosamente, il primo disco che ho recensito è stato Guarda la fotografia di Enzo Jannacci. Era il 1991 e quindi sono ormai quasi venticinque anni che faccio questo mestiere. Nel primo periodo, lavorando per testate locali e per piccole televisioni private, mi sono occupato sia di critica musicale che teatrale. Poi ho iniziato a collaborare con i quotidiani nazionali e sono quindici anni che scrivo su Avvenire e curo anche una rubrica fissa di recensioni discografiche. Quando è morto Giorgio Gaber, ho iniziato a portare il suo repertorio e la sua storia nelle scuole: in pratica, ho creato un piccolo format a metà tra lo spettacolo e la divulgazione per fare conoscere la sua figura e i contenuti della mia passione per la sua musica.



JC: Giorgio Gaber continua ad essere apprezzato anche dalle nuove generazioni. Quali sono state le reazioni degli studenti alle sue canzoni?


AP: I ragazzi di oggi, purtroppo, sono completamente vergini sull’argomento, non sanno nemmeno chi sia Giorgio Gaber: in pratica si parte da una tabula rasa. I risultati sono eccellenti, però, perché come tutte le grandi arti che parlano dell’uomo, anche il teatro-canzone di Gaber arrivano diretti al cuore dei ragazzi, anche dei più piccoli. Io lo porto sia nelle scuole medie che nelle scuole superiori: le reazioni si differenziano naturalmente. Nei ragazzi delle superiori c’è una maggiore capacità di andare ad approfondire i contenuti ma hanno già qualche sovrastruttura personale addosso: quindi in alcuni passaggi della testimonianza reagiscono con un po’ di fastidio, come era capitato a noi di fronte agli spettacoli, come aveva sperimentato lo stesso Gaber quando si trovava di fronte a persone che non volevano accettare un pensiero diverso, mentre il suo intento era proprio quello di innescare il dialogo, in realtà.



JC: Tu non hai avuto modo di conoscere Gaber, ma so che sei in contatto con Sandro Luporini, l’autore dei suoi testi, che apprezza molto il lavoro che stai portando avanti…


AP: Io non ho avuto né la fortuna né la possibilità: ho cominciato a lavorare nel 1991 e, quando la professione mi avrebbe potuto portare ad incontrarlo, lui era già molto malato. Ho conosciuto Sandro Luporini dopo la scomparsa di Gaber: non ha visto subito il lavoro, perché si muove davvero poco da Viareggio e quando siamo andati in Versilia con lo spettacolo, è venuto a vederlo e mi ha detto: «Di tutto quello che è stato fatto dopo la morte di Giorgio, questa è la cosa che testimonia meglio la sua figura in maniera completa.» Sentire queste parole da una persona che conosceva così bene Gaber è stata una delle soddisfazioni più grandi della mia vita.



JC: Quali sono stati i dischi e gli spettacoli di Gaber che ti hanno scosso in modo più profondo?


AP: Dal vivo, l’ho visto per la prima volta nel 1991 con lo spettacolo che si intitolava proprio Teatro-Canzone. Ogni suo spettacolo per me è stato una scoperta, un arricchimento. A volte, anche momenti di rabbia perché non sempre ero d’accordo con lui: ma riconoscendone l’onestà intellettuale, devo dire che ogni volta è stato un grande stimolo. Nel suo catalogo, lo spettacolo che amo di più è sicuramente Far finta di essere sani.



JC: Passiamo ad Enzo Jannacci…


AP: Enzo Jannacci l’ho scoperto nel tinello di Via Gola, dove abitavo e dove avevo questo mangiadischi giallo limone nel quale facevo ripassare in maniera continua i miei quarantacinque giri, come fanno i bambini che amano ripetere all’infinito le cose che gli piacciono. Tra questi c’era anche Vengo anch’io. No, tu no di cui però io ascoltavo sopratutto il lato B, Giovanni Telegrafista. Quello è stato il primo incontro. Qualche anno dopo, ho scoperto che in casa c’era un disco intitolato Milano Canta, un’antologia divisa a metà tra Milly e Jannacci e così ho scoperto lo Jannacci “milanese”. E poi sono diventato suo fan da adolescente, l’ho conosciuto personalmente e, quando era ancora in vita, è nata l’idea di testimoniare in qualche modo la parte più vera, le canzoni che lui riteneva più importanti. Sapevo la sua sofferenza per il fatto di venire riconosciuto sempre per Vengo anch’io. No, tu no e non per le canzoni che secondo lui erano al centro della sua opera.



JC: Volevo sottolineare due punti parlando di Enzo Jannacci. Da una parte la sua poesia, prendendo lo spunto dal disco di Mina, Quasi Jannacci, e dalla scelta che Mina ha fatto sulle sue canzoni; dall’altra il suo rapporto con il jazz.


AP: Da quello che mi hanno raccontato, Enzo ascoltava soprattutto il West Coast Jazz. Posso dire queste curiosità. Come pianista jazz ha lasciato una traccia in un disco quasi introvabile che si intitola Dieci anni jazz a Milano (1949-1959), dove hanno riportato anche in una ricchissima nota di copertina firmata da Polillo quelli che allora erano i giovani leoni della scena: c’erano Intra, Cerri e c’era questo Gene Victory Trio, in cui al pianoforte siede Jannacci e che Polillo paragona a Brubeck. Il disco sono riuscito a trovarlo, con grande fatica devo aggiungere, e posso dire che è un pianista jazz di vent’anni che suona davvero bene. Lui ha scelto di rinunciare al pianismo jazz perché voleva anche dire delle cose. Da critico di musica leggera, però, lui ha continuato a comporre da jazzista, le sue strutture armoniche e le sue melodie ne riportano i tratti tipici. Il suo modo di proporre i brani al pubblico, improvvisando sul palco; la stessa scelta dei brani, gli arrangiamenti sempre diversi, sempre in evoluzione; l’interpretazione, ad esempio, di Bonzo scritta da Cochi Ponzoni e rivista da Enzo come canzone politica, nel senso più alto. Ogni volta che lui sentiva il bisogno di esprimere una denuncia, lui riprendeva Bonzo e, da jazzista, la riarrangiava. Ed è per questo stesso motivo che ha fatto tanti dischi con canzoni già note: da vero e proprio jazzista sentiva la necessità di riappropriarsi di questi brani con le nuove idee musicali che nel frattempo aveva sviluppato.



JC: Paolo Jannacci, il figlio di Enzo, è un validissimo pianista jazz, ad esempio…


AP: Io stimo molto Paolo. Sia perché ha ereditato dal padre la bellezza e la dolcezza del carattere, sia perché ha ripreso il talento e si sente. Secondo me, lui ha fatto dei bei dischi, ma è chiaro che nel mondo di oggi è dura. Uno dei più grandi crucci di Enzo era proprio questo: «Perché Paolo vuole fare il jazz? Non riuscivo a guadagnare io negli anni cinquanta, come può pensare di viver facendo il jazz oggi…» E lo diceva con grandissimo orgoglio perché era davvero contento che il figlio fosse così bravo. Lui ha fatto tempo fa un omaggio al padre, In concerto con Enzo, dove ha riletto anche con la voce le canzoni di Enzo. Devo dire che anche io, come tutti, ero molto perplesso prima di vederlo, perché lui non aveva mai cantato prima: per cui il tarlo era «sarà una cosa bella per il lato affettivo oppure ci sarà qualcosa.» Invece, siccome Paolo è un musicista colto e quindi, ad esempio, sa che l’intenzione con cui si porge un testo vale, alle volte, anche più dell’intonazione. Di conseguenza ha fatto delle bellissime versione dei brani di Enzo. So che sta scrivendo ance delle cose sue, ma non so quando usciranno.



JC: Immagino che siano molti i musicisti e i cantanti che hai avuto modo di incontrare nella tua professione e nella realizzazione del libro…


AP: Sicuramente un musicista che ho amato molto e mi ha fatto capire molte cose, anche avendo avuto l’occasione di dialogare con lui, è stato Giorgio Gaslini. Nel libro, parlo anche di queste figure del jazz o della musica colta – come Cacciapaglia, ad esempio – perché hanno intersecato le vicende della canzone qui a Milano e, nel caso di Gaslini, si tratta di una delle vette assolute della musica italiana tout court, senza fare distinzioni di genere. Ho avuto la fortuna di essere ospite a casa di Gaslini e di fare una lunga e bella intervista: quando un artista abbina un grande rigore etico all’ispirazione artistica, io me ne innamoro subito. Gaslini era questo: credo che abbia insegnato tantissimo anche a chi percorre generi musicali diversi dal suo e confesso che la sua musica e così grande e così profonda che riascoltarlo ogni volta mi da degli stimoli diversi e soprattutto alcune cose – io l’ho conosciute a metà degli anni novanta – al primo ascolto non le capivo mentre ora mi arrivano e mi toccano. Questo vuol dire che c’è una profondità nella scrittura che non è di facile approccio ma è decisiva: ci vogliono artisti di questo genere per fare progredire la musica, inserendola nel tessuto della vita d tutti i giorni. Senza puzza sotto il naso: lui era una persona solare che voleva davvero portare la musica alla gente. Senza dimenticare che poi Gaslini è stato dietro tutti i dischi de I Gufi: era il dirigente della EMI incaricato di seguirli ed ha accurato molti arrangiamenti e adattamenti delle loro opere.



JC: Parlando di cantautori, spesso è capitato di vedere alcuni nomi messi in disparte o denigrati addirittura e poi riscoprirne il lato artistico solo dopo diversi anni. Penso a Renato Zero, ma anche ad altri nomi…


AP: Renato Zero, come altri, ha scontato un problema molto italiano: noi siamo sempre pronti a dividerci in guelfi e ghibellini. Negli anni settanta, è entrata a gamba tesa l’ideologia anche nella critica musicale: con tutto il rispetto per il credo politico di ciascuno, non ha senso dividere il mondo in “artisti impegnati” e quindi, per conseguenza automatica, “bravi” e altri, che non essendo esplicitamente impegnati, non sono meritevoli di attenzione. Questo ha fatto si che venissero denigrati musicisti solo perché non erano esplicitamente schierati: è stata una della cause del fatto che, poco alla volta, sia scomparsa la capacità di scrivere, perché se la regola è, appunto, che se sei impegnato sei bravo, allora anche quelli che non sono capaci di scrivere basta che aggiungano una denuncia per diventare dei “maestri”. Nel libro, La canzone a Milano, ho voluto segnalare due figure che pur mettendo molta ideologia nella musica, l’hanno fatto con grande onestà: mi riferisco a Ricky Gianco e ad Eugenio Finardi. Lo stesso valeva per Bertoli, anche se per evidenti ragioni geografiche non è nel libro. L’onestà di fondo fa si che uno possa ascoltare il messaggio, condividerlo o meno, ma senza perdere la qualità artistica del lavoro complessivo. Se uno scrive canzoni solo per fare il comizio, alla lunga la qualità si perde.



JC: Nel libro parli di diversi protagonisti della scena jazzistica milanese come Gorni Kramer, Bruno De Filippi, il Quartetto Cetra. Sei riuscito a conoscere alcuni di questi?


AP: Innanzitutto devo ringraziare Franco Cerri che ha firmato la prefazione ed è un amico. Ho conosciuto e conosco Enrico Intra. Ho avuto la fortuna di essere tante volte a casa di Virgilio Savona e di sentirmi raccontare tantissime cose. Lui era un musicologo e quando ho iniziato a frequentarlo, ho “osato” chiedergli indicazioni sui passi da fare per cercare di diventare un critico musicale. I suoi consigli sono stati straordinari, sempre. C’è un artista – non farò il nome per eleganza – che non è citato, volutamente, nel libro perché la sua musica non merita di essere ricordata per la troppa volgarità. Quell’insegnamento me lo diede Savona: mi disse che aveva comprato un suo lavoro pensando che fosse un chissà quale grande talento e poi dentro il disco non c’era nulla. Bisogna stare attenti a queste cose, perché alle volte l’immagine sovrasta la qualità. Era come se mi dicesse: «Ascolta il disco, prima di dare un giudizio…»



JC: Venendo ai giorni nostri, c’è qualcuno che sia in grado di raccogliere il testimone dei vari Jannacci, Gaber e via dicendo…


AP: Onestamente, non ne vedo… Una volta, durante un’intervista, Enzo Jannacci mi disse che secondo lui il cantautorato era finito con Fabio Concato. Forse si può aggiungere qualche nome successivo, penso ad esempio a Luca Carboni, però non aveva tutti i torti. Gaber sosteneva che un cantautore deve avere un mondo da esprimere: oggi questi mondi non ci sono. Anche per il modo in cui è strutturato li mercato discografico che prende questi ragazzi e li getta immediatamente sul mercato: non hanno tempo di formarsi. L’unico che secondo me può riprendere l’eredità dei cantautori in questo periodo storico è Davide Van De Sfroos. Non per niente ha fatto una grandissima gavetta, è partito dal cabaret, ha imparato a scrivere cammin facendo, ha iniziato a proporre un mondo e una sua forma poetica, ha avuto il coraggio della lingua, di esprimersi con la lingua che lo rappresenta pur rinunciando per questo a vendere dei dischi e assumendo delle responsabilità. Ho chiuso il libro con Davide Van De Sfroos. Milano è una città metropolitana: è una realtà indiscutibile, non dobbiamo e non possiamo chiuderci nel dialetto che, purtroppo, è sempre più una vera canzone milanese. Van De Sfroos nel libro mi ha raccontato come lui sia partito dai grandi cantautori di cui abbiamo parlato prima: quando ha avuto la gioia di ricevere di persona la “benedizione” di Jannacci, di Conte e di De Gregori, mi ha detto che da una parte si è sentito sollevato, ma sotto un altro punto di vista ha compreso di aver preso su di sé la responsabilità di dover portare avanti questa linea. Il problema dei ragazzi che si affacciano oggi è il modo in cui li “gestisce” l’industria: non ci sono più i Nanni Ricordi o i Vincenzo Micocci di una volta che erano capaci di prendere Jannacci o Endrigo o Mango e produrgli quattro o cinque dischi, aspettare, lasciarlo crescere finché non arrivava il successo. Non ci sono più queste figure: nel mercato discografico c’è gente che non sa più cosa sia la musica. E i ragazzi vengono presi e usati, costruiscono delle maschere, valorizzano un talento, li scaraventano nel mercato e dei personaggi concepiti in questo modo non possono reggere che per uno o due dischi. Non c’è un mondo dietro, non c’è la crescita, non c’è la sofferenza di aver cercato di capire come comunicare il proprio mondo agli altri.



JC: Un altro personaggio presente nel tuo libro è Memo Remigi… non è nato a Milano, ma ha dedicato molte canzoni alla nostra città…


AP: Quest’anno, peraltro, Innamorarsi a Milano, una delle sue canzoni più celebri, compie cinquant’anni. Memo Remigi, appoggiandomi ad un giudizio critico che ho trovato in una Enciclopedia della canzone di una ventina di anni fa, è un altro personaggio che ha subito l’ondata ideologica e non ci si è accorti della qualità compositiva di questo signore. È stato molto sottovalutato, anche perché è una persona molto garbata e in questo paese la buona educazione, temo che paghi poco. Tre caratteristiche lo rendono unico nel panorama milanese e non solo. Intanto ha scritto le canzoni più famose per i bambini. Poi, nel 1974 fece un vero e proprio concept album dedicato a Milano dal titolo Emme come Milano, con canzoni di alto profilo che andrebbero riscoperte. Infine, Giovanni D’Anzi lo aveva battezzato come suo erede: D’Anzi è stato un autore fondamentale, è stato il compositore di Oh mia bela Madunina, quello che insieme a Bracchi ha definito la canzone milanese che conosciamo oggi. Quando D’Anzi smise di scrivere, “investì” Memo Remigi del compito di scrivere per la Curci.



JC: Nel libro poi hai voluto richiamare alcuni personaggi scomparsi nel corso degli anni di cui si è dimenticati troppo in fretta…


AP: Si, ad esempio, non potevo non dedicare delle pagine ad Alessandro Bono, un ragazzo di Milano che è morto troppo giovane di AIDS e secondo me era il futuro del nostro rock: ha fatto appena tre dischi e mezzo e poi è mancato, ha scritto delle cose belle e aveva un talento accompagnato purtroppo ad una fragilità che lo ha distrutto. Ancora, c’è un altro artista che trovo dimenticato che si chiamava Fiipponio, attivo tra gli anni ’70 e ’80. Ho voluto infine dedicare una pagina a Bruno Lauzi, milanese di adozione, che abbiamo davvero fatto troppo in fretta a dimenticare.