Gli omaggi e i tributi nel jazz contemporaneo

Foto: Fabio Ciminiera










Gli omaggi e i tributi nel jazz contemporaneo



Premessa



Nell’ultimo periodo si sono moltiplicati i dischi dedicati al repertorio dei grandi del jazz con un atteggiamento di volta in volta diverso, più rispettoso degli originali o più libero, meno vincolato ai modelli presi in esame. Sono stati omaggiati personaggi come Billy Holiday, John Coltrane, Thelonious Monk, Steve Lacy, Sidney Bechet, spesso in concomitanza con qualche anniversario, della nascita o della morte.



Fuori dallo stretto ambito jazz, si sono realizzati tributi ai Beatles, ai Rolling Stones, pensiamo all’ultimo cd di Danilo Rea, a Michael Jackson, ad opera di Enrico Rava, o a Frank Zappa per mano di Stefano Bollani e dei Quintorigo con Roberto Gatto, limitatamente all’Italia.



Sono stati coinvolti alcuni delle firme di Jazz Convention in un’inchiesta volta ad analizzare l’argomento con la richiesta precisa di rispondere alle seguenti tre domande:



1. Il proliferare dei tributi, è un segno di mancanza di idee nuove, da parte dei protagonisti del jazz di oggi, oppure è un giusto omaggio alle musiche del passato?

2. È una strada utile secondo voi per dare attualità al repertorio degli standards? Per rinnovare, cioè, lo stesso songbook?

3. Quali, secondo il vostro parere, sono i migliori tributi o omaggi pubblicati negli ultimi due o tre anni?


Ecco come hanno risposto Guido Michelone, Luca Labrini, Marco Buttafuoco, Martina Lolli, Nico Conversano, Flavio Caprera, Gianfranco Nissola, Nicola Barin e Fabio Ciminiera: per dare una coordinata utile alla lettura del testo, le risposte seguono i nomi relativi.



Guido Michelone



1. Io penso che sia più un giusto omaggio, perché i grandi maestri del jazz, anagraficamente parlando, sono quasi tutti scomparsi (restano Sonny Rollins, Lee Konitz e pochissimi altri) e quindi l’unico modo per onorarne non solo la memoria ma soprattutto la musica sia quello di interpretarne i repertori, valorizzandone anche la vena compositiva (che in molti casi, soprattutto dai critici, viene messa in sottordine). Ovviamente è importante che omaggi e tributi siano a loro volta qualcosa di creativo, profondo, originale e non una filologia interpretazione, che poi diventa pedissequa, anonima, scontata. Quando ad esempio esistono arrangiamenti scritti, il rischio è forte: ad esempio tra la Porgy And Bess di Miles Davis e Gil Evans e quella rifatta da Paolo Fresu con l’Orchestra Jazz Sardegna non vi sono grosse differenze, se non una distanza temporale di oltre mezzo secolo. Rifarla da vivo ha un senso, così come si eseguono le partiture classiche: ma ascoltando entrambi i dischi, il primo resta di gran lunga il migliore come feeling, impatto, fascino, idee, come tutto, insomma.



2. Gli standards si sono sempre fatti e sempre si faranno: è solo con il free jazz e la fusion che vengono in parte accantonati, benché ad esempio la rilettura dissacrante di Archie Shepp su Sophisticated Lady di Duke Ellington resti un capolavoro (oggi purtroppo poco riascoltato)! Il problema oggi è semmai dire: quali standards? Ancora fino all’hard bop molti brani jazz diventavano standards accanto a quelli presi dal repertorio leggero (canzone, teatro e via dicendo). Ora, da quasi cinquant’anni sono rarissimi i nuovi pezzi che vengono suonati e condivisi da tuti i jazzmen: non esiste ad esempio una My Funny Valentine degli anni Settanta, Ottanta, Novanta, Duemila. Le nuove generazioni jazzistiche, cresciute con le radio che trasmettono non jazz ma rock e pop music, stanno cominciando a inserire brani pop e rock in mezzo ai vecchi standards o ai loro orginals: Brad Mehldau ad esempio è da anni che improvvisa sulle songs di Neil Young o dei Radiohead. Anche in Italia si cerca tra i cantautori chi meglio si presta a una rivisitazione in chiave postbop: Luigi Tenco ad esempio “rifatto” da Tiziana Ghiglioni e da Ada Montellanico in tempi e in modi diversi è già un buon inizio.



3. Ce ne sono molti validissimi, ma ne cito solo un paio: da un lato il cantante/chitarista Bucky Pizzarelli con Midnight McCartney in cui si rifà al repertorio postbeatles di Paul, ma trasformandolo in swing, bebop, bossanova, quasi con uno scambio di favori avendo lui suonato nell’album di McCartney per la prima volta dedicato al jazz, ovvero formato da una dozzina di celebri standards. Dall’altro lato la vocalist, sempre americamna, Densie Donatelli che con Find A Heart tratta undici canzoni via via di Sting, Donald Fagen, David Crosby, Beck, gli Yellowjackets come se fossero melodie mainstream, con esiti brillanti. Entrambi, Pizzarelli e la Donatelli, pur attraverso generi “tradizionalisti”, hanno osato, han fatto qualcosa di diverso rispetto al solito Monk suonato scolasticamente, come neanche al Conservatorio insegnano più a fare.



Luca Labrini



Secondo me gli omaggi ai grandi ci sono sempre stati, anzi in passato anche in maniera ancor più massiccia. Mi sono accorto per esempio, preparando la puntata su Frank Sinatra, un gran numero di album di jazzisti dedicati al suo repertorio, già nel 1958 un ritratto di Sinatra in Jazz dell’Oscar Peterson Trio. La questione è che quei dischi allora erano considerati di secondo piano rispetto agli album di brani originali che erano davvero notevoli ed innovativi, oggi mancando nuove idee e grandi compositori, diventano molto più importanti. Se in più consideriamo i vari anniversari e il marketing delle case discografiche il gioco è fatto.


L’unico che ha davvero sdoganato un nuovo repertorio in questi ultimi dieci anni è senza dubbio Brad Mehldau, per il resto mi sono piaciuti l’omaggio di Meshell Ndegeocello su Nina Simone e quello di Stefano Cerri sui Beatles, gli altri che ho avuto modo di ascoltare, da Cassandra Wilson a Dee Dee Bridgewater, non mi pare abbiano mai aggiunto nulla alle versioni originali.



Marco Buttafuoco



1. Non credo che suonare standard o, musica dei decenni precedenti sia sempre segno di pigrizia mentale. Non credo nemmeno che suonare materiali propri sia in ogni caso un segnale di originalità. Qualche anno fa Franco D’Andrea ha pubblicato un disco bellissimo come Tradition and Clusters, dedicato addirittura al jazz più remoto. Claudio Cojaniz ha riletto molti standard in chiave stride e il suo primo disco dedicato a questa ricerca è decisamente bello. Potrei anche citare il lavoro di Paolo Botti su Albert Ayler come esempio di rilettura creativa della tradizione. Il discrimine non è quindi la scelta di cosa si sceglie di proporre, quanto cosa si ha di nuovo e di realmente originale da dire. I Pericopes suonano materiale di loro composizione e sono davvero interessanti. Lo stesso si può dire dell’ultimo lavoro di Beppe di Benedetto o del disco di Vito Laforgia ( che pure fa i conti con le musiche del passato). O lo splendido Future Revival del trio di Giulio Corini, dove si ascoltano brani “sperimentali”, ma anche una splendida rilettura di un classico come Skylark. Il fatto è che nello sterminato numero di dischi che escono ogni anno le cose veramente notevoli sono poche. Difficile trovare un disco mal suonato ma è altrettanto arduo ascoltare qualcosa che lasci davvero il segno.



2. Senza creatività e spirito di ricerca non si arriva da nessuna parte, se non a rimasticare quello che è stato già stato elaborato decenni fa. Il problema non è quindi attualizzare o meno un repertorio. E’quello di una certa omologazione imperante e dilagante nel modo di suonare.



3. Ho già citato nella risposta alla prima domanda gli esempi migliori di tributi riusciti. Altri non ne saprei citare. Certo, non ho ascoltato tutto quello che è uscito nel periodo indicato e probabilmente qualcosa mi è sfuggito.



Martina Lolli



1. A mio avviso la nostra epoca è caratterizzata non da un inaridimento della creatività quanto piuttosto dalla necessità di rallentare il passo per ripartire da ciò che abbiamo lasciato frettolosamente alle spalle. Oggi non facciamo che riscoprire autori, artisti e musicisti che non abbiamo avuto il tempo di notare allora; questo è molto significativo e indica non la paura di esporsi con idee proprie ma il bisogno di abbassare il volume del brusio di fondo in cui viviamo. Si tratta di mantenere in vita una ricerca che può essere presto dimenticata, di rimuginare su ciò che è stato per ponderare nuovi passi. Il ritmo frenetico che ci ha travolto ci ha fatto credere che alla fine degli Anni Settanta l’arte e la musica fossero a un punto di non ritorno; nulla di più sbagliato, solo una prospettiva distorta dalla velocità a cui ci muoviamo.



2. Penso che sia utile soprattutto a dare un fondamento a ciò che stiamo facendo. Il secolo breve è stato caratterizzato dal progresso a tutti i costi fino ad approdare a una pluralità di voci e soluzioni stilistiche tutte rassomiglianti fra loro, una variazione sul tema dell’inidividualismo che ci ha privati dell’orizzonte storico. Penso che gli autori di oggi abbiano bisogno di ritrovare un appiglio e ripartire da lì per elaborare un discorso che sia condivisibile dai più. Nell’epoca della postproduzione e del deejaying riproporre standards è un modo per scavare un genere che abbiamo esaurito prima del tempo attraverso l’obsolescenza programmata dettata da un mercato in cerca di un’innovazione a tutti i costi. Attualmente i musicisti hanno la possibilità di affrancarsi dalle vecchie strategie per entrare nel calderone mercantile e questo ha instaurato un clima diverso, una differente modalità creativa. Inoltre riproporre standards oggi è una buona soluzione per tamponare la superficialità con cui i più giovani si approcciano alla musica.



3. Sebbene un po’ “datato” penso che fra i migliori omaggi ci sia Milestones. Un incontro in jazz (2007) di Gino Paoli, Enrico Rava, Danilo Rea, Roberto Gatto, Flavio Boltro e Rosario Bonaccorso. In questo album, alcuni grandi del jazz made in Italy incrociano l’arte di uno dei più importanti cantautori. L’esperimento è particolarmente riuscito non solo per la levatura delle personalità coinvolte ma perché l’operazione diviene un qualcosa di corale e mai semplicemente celebrativo. È uno scambio alla pari grazie al quale la ricerca dei musicisti si arricchisce del colore del genere con cui interagiscono. Il più recente Monk’n’Roll (2013) di Francesco Bearzatti e Tinissima Quartet rappresenta un progetto ben strutturato; con una ritmica accattivante e già “digerita” (mutuata dai più famosi brani rock), traduce le innovazioni avanguardistiche del maestro Monk che possono risultare “ostiche” ai non addetti ai lavori. Living Coltrane (2011) di Stefano Cocco Cantini è un progetto che al primo ascolto risulta più “classico”, forse più fedele all’originale ma comunque ricco della personalità del musicista. Se è vero che ogni traduzione è un tradimento è altrettanto vero che sperimentare sui classici, arricchirli pian piano fino a distanziarsene, potrebbe essere il miglior metodo per sviluppare una ricerca più lenta ma densa, un’evoluzione naturale e non frenetica di un genere ricercato e che ha ancora da dire qualcosa.



Nico Conversano



1. Più che in altri generi musicali i jazzisti di oggi, così come in passato, si affidano al repertorio classico del jazz confermando ancora una volta questa pratica come consolidata e dalle modalità quasi rituali. Questo alla lunga, però, rischia di diventare un buon escamotage per incidere un disco in un momento non creativamente florido per il musicista che in mancanza di meglio dà spesso alle stampe un disco di transizione tra altri più ispirati. Sono tanti, forse troppi, i dischi pubblicati ogni anno in cui vengono suonati solo standards o quanto meno una grossa percentuale di essi. Penso che debbano essere soprattutto le nuove generazioni di jazzisti ad osare di più, ripercorrendo uno standard solo se si vuole davvero aggiungere qualcosa a quello già detto, stravolgendo completamente la composizione, e comunque lasciando più spazio alla creatività. L’eredità degli standards a volte sembra gravare troppo sulla testa e il cuore dei jazzisti.



2. Credo che i classici vadano sempre ricordati perché rappresentano le imprescindibili fondamenta del genere, ma andrebbero utilizzati all’interno di un contesto sempre attuale e progettuale ben preciso che non li faccia apparire solo come un semplice tributo del passato.



3. Ho amato particolarmente il tributo che il trombettista Enrico Rava ha dedicato alla musica di Michael Jackson, in un disco pubblicato per ECM qualche anno fa. Aldilà dei meriti musicali trovo che da parte di un jazzista del calibro di Rava sia molto coraggioso e per certi versi lungimirante realizzare un disco del genere perchè tramite esso passano diversi messaggi che a mio avviso rappresentano la chiave di come andrebbero trattati oggi gli standards:

Bisognerebbe uscire dal clichè che il musicista di jazz tributa solo un altro musicista di jazz, aprendosi ad altri generi, anche lontanissimi dal jazz.

I veterani del jazz non devono avere paura di tributare musicisti appartenenti a generazioni diverse o successive alla loro.

Il modo in cui il materiale musicale è trattato è atto a trasformare e creare dei nuovi standards ed è questo l’atteggiamento moderno verso il quale dovrebbero puntare i musicisti di oggi che affrontano il concetto di standards: non rivolgersi solo al passato, ma lavorare per crearne di nuovi.



Gianfranco Nissola



Essendo ormai certo che il jazz, nell’essenza musicale più che in quella storico-letteraria, non è da confinare in uno stereotipo, non posso affermare che i protagonisti contemporanei – i musicisti intendo – si trovino a corto di idee: tutt’altro! La crisi sta semmai nel necessario, e purtroppo mancante, sostegno economico che sia di supporto in maniera più concreta, se non proprio garantire, meno sofferte possibilità di sviluppo di questa forma d’arte viva. Almeno ad un livello più generalizzato e non riservato, quindi, a coloro che sono più affermati. Riferirsi e conoscere il passato, della musica e dei musicisti, è indispensabile per maturare e “progettare” il futuro: affinare i propri gusti, individuare le proprie tendenze, incanalare proprie inclinazioni in nuove direzioni. Pensiero mio, ovvio. Per poter percorrere nuove strade è necessario conoscere quelle più antiche; è un punto di partenza ineludibile. Poi interviene l’aspetto basilare delle affinità espressive; le persone giuste con cui condividere idee e percorsi. Da questo presupposto omaggi e tributi ben vengano, nel segno dell’innovazione e non della pedissequa ripetizione di cose già viste, sentite: sempre meglio la documentazione, in registrato, originale e irripetibile, che non una rivisitazione sonora, seppure anche ottima, che può condurre alla conformazione ma mancherebbe certamente di originalità.


La forma più semplice di omaggio o tributo, d’altronde, la troviamo nelle “citazioni” sonore di un musicista che ne richiama un’altro attraverso scarne battute di brani famosi, inframmezzate a quel che sta suonando. E qui azzardo che questo “momento topico” può rappresentare, nella mente dell’esecutore, il trovarsi ad un bivio: allora in che direzione procedo? Attimo di riflessione, ma può anche essere un pensiero reverente a colui che lo ha preceduto ed ha influenzato il processo di maturazione, sia tecnica che estetica. Perché un riferimento a qualcuno, e a qualche cosa di già fatto, esisterà sempre.


E veniamo al discorso degli standards. Possiamo considerarli una struttura portante, e importante, su cui il musicista interviene per scomporre e ricostruire? Forse. Questi brani e la loro generalizzata denominazione, non ci pongono forse innanzi ad un paradosso? Standard per definizione, sia esso sostantivo o aggettivo, non è forse un modello cui uniformarsi? Invece nel jazz è considerato, per contrasto, un punto compositivo di partenza da variare, musicalmente, sia nella forma che nella sostanza. L’attualizzazione è già in sè, perciò ciascun musicista ne fornisce la propria interpretazione. Non ne farei oggetto di repertorio anche per non generare conflitti: questo è, o si può considerare tale, oppure non è? Standard, alcuni, lo sono diventati poi, quando espressi in una nuova veste. Molto meglio quindi una seria progettualità personale: punto questo che distinguerebbe, a livello artistico, il musicista-esecutore dal compositore istantaneo. Non solo bravo a suonare, ma ricco di idee e di espressività.


In merito alla terza e ultima domanda: non saprei fornire indicazioni selettive – ho scarsa conoscenza di progetti validi realizzati – non privilegiando il percorso di recensione delle novità. Procedo personalmente piuttosto approfondendo ed analizzando la figura e l’opera di un jazzista. Ho anch’io fatto qualche progetto ed ho avuto la fortuna di incontrare artisti che mi hanno permesso di realizzarli. Per modestia non mi va di citarli; sono stati apprezzati ma ne è difficoltosa la ripetizione in assenza di sostegno economico. Bisogna dedicarvi molto tempo, ma alla fine ci si arricchisce culturalmente, si prova soddisfazione e, per i musicisti partecipanti, anche frustrazione purtroppo, nel vedere considerato il proprio lavoro come un “unicum”.


Nota del redattore: Nissola si riferisce ad un seminario su Miles Davis, svolto a Valenza alcuni anni fa, in cui il repertorio del “divino” è stato ripreso e riproposto da un’orchestra formata per l’occasione e diretta da Roberto Chiriaco.



Flavio Caprera



1. Credo che la verità sia nel mezzo, nel senso che è giusto omaggiare con criteri di modernità e serietà artistica le musiche o i maestri del passato. Diventa ridicolo quando il tutto viene fatto perché in quel momento è di moda o si celebra un anniversario che può far vendere più dischi. Li si sfocia nel ridicolo, nel manierismo e nella negazione di quello che è arte.



2. Rifacendomi alla risposta precedente direi che è utile “rinverdire” gli standard e farli conoscere a un pubblico più vasto, ma bisogna farlo con professionalità, passione e spirito contemporaneo.



3. Credo che sia ben riuscito A Love Supreme di Branford Marsalis. Mentre, al contrario lascia molto a desiderare quello a Billie Holiday di Cassandra Wilson.



Nicola Barin



1. Attualmente la situazione è molto variabile, troviamo alcuni rispettabilissimi omaggi a grandi jazzisti che provengono da artisti affermati e di grande caratura. Il tributo proviene da un’urgenza compositiva e ci racconta il loro retroterra culturale. Se ci spostiamo, al contrario, al jazz “da salotto” si ha la netta sensazione che la creatività sia finita in cassetto per sempre: l’abdicazione ad ogni iniziativa musicale sensata. Le etichette discografiche la fanno da padrone e propongono riconoscimenti patinati e leccati da dimenticare.



2. Al di là della qualità dell’omaggio è sicuramente utile la riproposizione degli standards, soprattutto quelli meno frequentati. Si potrebbe parlare di un naturale sviluppo, da parte dell’interprete, di ciò che era già “in potenza” nello standard in origine. Si giunge cosi all’attualizzazione dello stesso.



3. Ecco un piccolo elenco:

Stefano Battaglia Trio, In the Morning, Music of Alex Wilder – Ecm Records

Roberto Ottaviano, Forgotten Matches, the worlds of Steve Lacy (1934-2004) – Dodicilune Dischi

AA. VV. Hunger and Love, Billie Holiday (1915-2015) – Dodicilune Dischi

Franco D’Andrea, Monk And The Time Machine – Parco della Musica Records

Matteo Marangiu, Open Letter to Mingus – Improvvisatore Involontario


Fabio Ciminiera



1. Come per molte altre questioni, la verità sta nel mezzo: dipende dall’onestà intellettuale e artistica con cui viene realizzata la proposta. Il jazz per la sua capacità mimetica, per la sua accoglienza ha sempre saputo prendere materiali esterni per sviluppare nuove idee. È stato un sintomo e una risorsa, allo stesso tempo. Succede da sempre ed è giusto – doveroso, quasi – che il jazzista di oggi si misuri con la rivisitazione di pagine che provengono da alttri mondi: ovviamente, mi ripeto, la chiave è l’onestà con cui viene realizzato il lavoro. Anche perchè poi è facile riconoscere la solidità di un progetto, come è facile capire quando lo spunto di partenza si sfalda e il musicista aggiunge brani solo per poter arrivare a completare la scaletta del disco o del concerto.



2. Forse no, ma sarà ovviamente il tempo a dare la risposta definitiva. La creazione del repertorio consolidato degli standard ha avuto dalla sua, tra le altre cose, una combinazione di eventi tale da codificare e attestare la pratica di quel materiale: all’epoca, le canzoni di maggior successo venivano riprese dai capofila del jazz, in maniera simultanea, sotto l’attenzione di pubblico e critica, nei luoghi ai quali tutti facevano riferimento, vale a dire New York, i teatri di Broadway e i club più importanti dell’epoca. Per fare un esempio, se il songbook dei Beatles ha innescato subito una rilettura jazzistica – penso a The Other Side of Abbey Road di George Benson e a tante reinterpretazioni di singoli brani avvenute già prima della fine degli anni sessanta – per arrivare a definire i brani diventati patrimonio comune del repertorio jazzistico c’è voluto molto più tempo. Oggi assistiamo, ancora prima che ad una moltiplicazione dei tributi, alla riduzione dell’importanza dei soggetti ai quali rivolgere gli stessi tributi: diventa difficile definire il percorso che porta oggi un brano a diventare uno standard, vale a dire un riferimento sicuro e condiviso, se, quando un jazzista lo sceglie, c’è un’ampia fetta di pubblico, musicisti e critica che non lo conosce, non lo stima o non lo mette al vertice del panorama musicale. Manca, in pratica, la condivisione generale che ha fatto la storia di canzoni celebri come Over the rainbow o I got rhythm, tanto per citare due tra i molti titoli presenti nei dischi e nei concerti dei jazzisti.



3. Al volo, direi Bird Calls di Rudresh Mahanthappa. Un lavoro centrato su Charlie Parker per innescare, però, tutta una serie di ragionamenti musicali che si sganciano e si riavvicinano al mondo di Bird: non è un vero e proprio omaggio, non vengono reinterpretati i brani originali, ma rappresenta il testimone raccolto da un grande della storia del jazz per spingersi avanti nella ricerca musicale.



Conclusioni



Come si vede le opinioni, pur divergendo nei particolari, contengono elementi comuni su cui tutti concordano. Per chiudere (o riaprire) il discorso verrebbe da aggiungere che gli omaggi o i tributi “funzionano” quando sono fatti bene e producono musica ragguardevole. Perdono significato, invece, allorchè fanno rimpiangere gli originali perché si ascoltano con fatica e non racchiudono caratteristiche innovative .
Fra i dischi da aggiungere alla lista dei citati, direi che Something in our way, l’ultimo cd di Danilo Rea, dedicato ai Beatles e ai Rolling Stones, è un album piacevolissimo, molto ben pensato. In campo internazionale, The Whammies hanno lavorato alla grande sul repertorio di Steve Lacy, come pure Ideal Bread. Si potrebbe anche citare William Parker con il suo Inside songs of Curtis Mayfield, potente e ricco di groove.


Mi fermo qui, ma si potrebbero trovare tante altre prove degne di essere menzionate.


Chissà che a qualcuno non venga in mente prima o poi di scrivere un libro su questo tema.