Dodicilune Dischi – Ed 345 – 2015
Rino Arbore: chitarre
Michel Godard: tuba, serpentone
Mike Rubini: sax alto, flauto
Pippo D’Ambrosio: batteria, percussioni
Sarebbero assai estese (e non scevre da ricadute polemiche) le implicazioni delle ispirative premesse del nuovo lavoro del chitarrista pugliese, che dalla “velatura” della figura femminile, devozionale e/o popolare, nelle aree mediterranee oggi divise tra differenti fedi, trae delle linee speculative secondo le quali la suddetta «simmetria iconografica diviene sinergia e creativa fusione di stilemi popolari e colti, sinestetica fusione», da cui la musica in oggetto, “di matrice improvvisativa” che «muove dai suoni ancestrali del rito» forgiatosi nel nostro Sud sotto le influenze della religiosità araba e bizantina.
Complesse, ardue da pacificare le scelte simboliche e le questioni sollevabili, ma certo appare che dal femmineo universo siano state tratte almeno consistenti energie acquee e valenze misteriche, come l’ibrido linguaggio d’apertura affidato all’atemporale e semi-aliena eloquenza del serpentone (da un talentuoso artigiano di note basse, esperito a gettare turbativi ponti verso gli abissi di quell’immaginario medievale assai approfondito nell’eterogenea e già nutrita discografia da titolare), che come gli altri strumenti in ordine di comparsa annuncia la scelta di una libera palette stilistica.
Già avvezzi a determinate soluzioni formali del titolare (particolarmente nelle formule in quartetto), ne ritroviamo le progressioni snervate, a tratti ondivaghe e languenti, spezzate da secchi “coups de théâtre” frammisti ad acuità corali o esplosive, che si ritagliano più letterali aree d’azione “in jazz” nella cruda, dedicataria Flowers (d’ispirazione colemaniana, ma mirante anche più a ritroso) e nell’andamento dell’eponima The roots of unity, introdotta da uno spigoloso drum-solo su cui s’innervano sospesi intercalari di ottone e corde elettriche, oltre agli indugi free-style della conclusiva Cotton and Silk, in cui disordinate eco di un arco referenziale, da Paul Winter o Egberto Gismonti, lasciano in trasparenza scorgere ben più antiche e picaresche ascendenze.
Le pulsazioni a ritmo di marcia conferite dall’arioso drumming intessono le trame delle umorali composizioni, adornate dalle sinusoidali figurazioni dei fiati di verde fibra, degli aliti tellurici dei profondissimi ottoni e dalle estrose, tattiche sortite delle chitarre, tutti “personæ” solistiche esposte con alterno semi-protagonismo e che sanno conformarsi a colloquialità polifonica.
Tra plaghe emotive e pietismo (in proporzioni a discrezione dell’ascoltatore), il benintenzionato lavoro guarda al retroterra alla materia vivente nelle drammaturgie religiose delle nostre realtà meridionali e insulari, connessioni contemporanee alle “radici” di un’invocata “unità” (rivoltabile egualmente come la “liason delle differenze”), dandone rappresentazione almeno nel libero meticciato linguistico dell’album che, capitalizzando il talento dei partecipanti, soddisfa le vocazioni fusioniste dell’ideatore del progetto, condotto a compimento con una certa disinvoltura espressiva che cimenta la “decisa e puntigliosa scrittura” con un senso spettacolare non privo di un margine indeterminato ed un’intrinseca quota effimera.