Slideshow. Luigi Tessarollo

Foto: Fabio Ciminiera










Slideshow. Luigi Tessarollo


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Luigi Tessarollo?



Luigi Tessarollo: Sono un musicista jazz che, in circa 35 anni, ha registrato una trentina di dischi, la maggior parte a proprio nome, contenenti un’ottantina di proprie composizioni. Come chitarrista sono stato tra i primi in Italia, negli anni 80/90, a suonare professionalmente con musicisti americani e stranieri in gruppi misti – tra cui una decennale collaborazione con George Garzone o con la sezione ritmica di Gerry Mulligan – e mi sono invece dedicato in ambito artistico sia allo sviluppo di progetti per combo con chitarra e strumento a fiato, sia nella dimensione cameristica del duo. Da quello con Stefano Bollani negli anni Novanta a quello tutt’ora attivo con il chitarrista brasiliano Roberto Taufic per arrivare al recente incontro con il pianista Dado Moroni. Ho inoltre sempre avuto un’attività molto intensa in ambito didattico e adesso infatti sono docente di Chitarra Jazz al Conservatorio di Milano.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


LT: La batteria giocattolo che mi regalò mio padre a quasi 4 anni. Dovevano tenermi per non “suonarla”, quei suoni/rumori erano irresistibili!



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


LT: È successo negli anni del Liceo: studiavo musica e suonavo già la chitarra da anni e a 14 anni ho avuto il primo ingaggio “professionale”, era una veglia di capodanno. A 17 mi sono iscritto alla SIAE come compositore. Insomma, ho avuto a che fare con la musica già dalle elementari. Negli anni del Liceo grazie o per colpa anche di un paio di insegnanti molto appassionati, il jazz mi ha catturato completamente e l’insopprimibile necessità di trasferire sulla chitarra l’estetica di questa musica così affascinante e misteriosa, allo stesso tempo, mi ha fatto diventare chitarrista di jazz. Nello stesso periodo, seconda metà degli anni settanta, a Torino e dintorni c’era già una scena vivissima: alcuni organizzatori portavano spesso veri grandi nomi del jazz americano a concertoni nei palazzetti dello sport, nei bellissimi parchi di Torino, anche al Teatro Regio. Anche questo ha certamente influito. Vorrei aggiungere che è stato, inoltre, determinante nella scelta di intraprendere la carriera del musicista, in senso professionale, il nullaosta di mio padre che mi ha visto in difficoltà nel periodo in cui mentre lavoravo come chitarrista per la RAI, davo contemporaneamente esami all’università: ha capito prima di me che ero già musicista da tempo e mi ha suggerito di lasciare l’università per approfondire ancor più seriamente la musica.



JC: E in particolare come sei diventato chitarrista “di” jazz come dici tu?


LT: Più che altro ci son stati motivi per diventare prima di tutto un chitarrista. A sei anni la chitarra mi è capitata un po’ per caso: la suonava piuttosto bene un amico di famiglia, strumento agile, socievole, buono per cantare in compagnia. È uno strumento tanto comune quanto straordinario e, diciamo la verità, l’immaginario romantico pone la chitarra su un piano diverso dagli altri strumenti musicali con tutte queste sue miriadi di varianti sonore, fisiche e organolettiche (classica, folk elettrica, rock, jazz). Da allora non son mai più riuscito a liberarmene. Il “chitarrista jazz”, come detto prima, è arrivato dopo.



JC: Ma cos’è per te il jazz? Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


LT: Si dice e si vuol sentir dire che il jazz è libertà, improvvisazione, espressione estemporanea della creatività del musicista, rischio e trasgressione, spirito del bohémien. Si, può esser anche queste cose. Per me è fondamentalmente disciplina interiore e artistica, rivolta all’estenuante quanto appagante ricerca di un’idea del bello e del giusto. Un’arte che mette sullo stesso piano e sullo stesso livello i parametri estetici oggettivi, codificati e storicizzati con quelli personali del proprio forte e impellente pensiero musicale. Un po’ forse come il compositore classico. Il tutto con l’imprescindibile necessità di esternarne le connotazioni ritmiche in ambito melodico, armonico e musicale tutto, che solo il jazz sa dare in quel modo.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


LT: A tutti e, ogni volta, all’ultimo. Ho fondamentalmente due diversi tipi d’affezione: quello per i lavori con la mia musica – come, ad esempio, i dischi con Giammarco, Garzone, Dario Deidda – e quelli legati agli standards come i dischi con Bollani o Rachel Gould.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta (almeno tre)?


LT: Un disco di Louis Armstrong dove canta Oh when the saints go marching in. Un disco di Ravel con il Bolero. Il “banale” quanto unico Kind of Blue…



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


LT: Tanti, compresi mio figlio stesso, da cui imparo in modo sorprendente e anche alcuni miei allievi. Ne citerei alcuni nella musica, perché son davvero troppi coloro che mi hanno insegnato cose importanti nella cultura e nella vita: da giovanissimo, l’amico di mio padre, lo stesso citato prima, e il mio primo barbiere! Quando aveva solo me come cliente, mi suonava Harlem Notturno al sax nel retrobottega e io provavo ad accompagnarlo… poi mi ha preso nel suo gruppo. Al Liceo l’insegnante di ginnastica: a 16 anni mi ha prestato il primo disco di jazz, Lee Konitz With Billie Bauer. Mi avessero detto: «Tra 22 anni suonerai con Lee Konitz in un festival e sarà ospite del tuo quartetto» non ci avrei mai creduto! A 21 anni, l’esperienza con gli Arti & Mestieri: la professionalità del leader Furio Chirico che esigeva serie prove quotidiane di tre, quattro ore per sette giorni consecutivi prima di un concerto, ha contribuito a trasmettermi l’importanza e il valore di un esibizione. Un concetto che ho assodato negli anni: tu sei un guerriero missionario che fa musica; e la cosa è seria, molto seria; e i tuoi sforzi mostruosi hanno il diritto e il dovere di avere anche il giusto riconoscimento economico. Ho iniziato a capire da subito la differenza tra fare musica e vivere per, con e di musica. Un gran maestro, infine, è stato per me il tenorista americano George Garzone da cui ho imparato non solo tantissimo musicalmente, ma anche in termini di filosofia di “vita musicale”.



JC: E quali sono chitarristi che ti hanno maggiormente influenzato?


LT: Più che chitarristi sono stati molti gruppi e la loro musica: ad esempio i Genesis (che, alla fine degli anni settanta, trascrivevo per chitarra classica!) o il Perigeo dove spesso c’era anche il chitarrista ma spesso no, oppure gli Emerson, Lake & Palmer o i gruppi di Davis prima degli anni ’80, i Weather Report… parlando invece nello specifico di strumentisti chitarristi: in ambito classico, Segovia, Bream, Williams, Paco De Lucia, in ambito folk Leo Kotke e in ambito rock Richie Blackmore e Carlos Santana. Per il jazz senz’altro Joe Pass, John Scofield, George Benson e il grande Wes Montgomery.



JC: C’è per te un momento magico della tua carriera di musicista?


LT: Ben più di uno. Tra i tanti, l’essere stato chiamato a suonare a Boston, in quanto vincitore di un contest discografico (Best of Boston Jazz Search) indetto nel 1993 nello Stato del Massachussets dall’Hennessy Cognac: selezione dei tre migliori dischi dell’anno tra 130 cd in concorso. Il nostro era No More Mr. “Nice Guys” con George Garzone, Douglas Yates, Bob Gullotti, Matt Wilson e Lello Molinari, anche in veste di produttore. I vincitori suonarono nel prestigioso jazz club Regattabar di Boston e io venni invitato appositamente da Torino per l’occasione.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami particolarmente collaborare?


LT: A questo punto della mia carriera è imprescindibile l’ottimo rapporto fuori dal palco. Rifiuto collaborazione, anche con talento o nomi, se manca questo requisito. La formula del duo, e quindi della coppia, ha bisogno di questo all’ennesima potenza: devi esser amico con il tuo unico partner: vale per il duo con Taufic, Fulvio Chiara, Bollani e più recentemente per quello con Rachel Gould, Mattia Cigalini, Dado Moroni. Amo collaborare con musicisti che possiedono personali caratteristiche espressive e quindi scrivo o arrangio la musica in funzione di questo: Il Mediterranean Trio con Deidda e Rolle e tutti i lavori con George Garzone ne sono un chiaro esempio.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia? E più in generale della cultura in Italia?


LT: In una visualizzazione grafica cartesiana del mondo musicale vedo cose non sempre belle: vedo ridursi sempre più la curva dell’importanza data dal musicista stesso al valore artistico della musica che suona e, per contro, aumentare vorticosamente il valore dato allo sviluppo della propria immagine e ad una vita musicale dedicata a preoccuparsi incessantemente della propria promozione. Avverto la riduzione drastica di quel tessuto socioculturale che valorizzava molto di più l’impegno artistico e riconosceva non solo il fatto di dover essere davvero bravo, ma soprattutto di saper fare cose “belle,” (che non è per niente la stessa cosa). Riscontro anche il calo, da parte degli addetti ai lavori, dell’attenzione ai contenuti delle proposte artistiche inversamente proporzionale all’attenzione soltanto verso nomi che attirano molto pubblico.



JC: A cosa significa tutto questo?


LT: Riduzione della curva di professionalità dell’artista che suona e realizza la musica: nei nuovi musicisti il concetto di “lavoro”, professione che produce reddito per vivere e pagare le proprie spese, si è azzerato. In concomitanza, si rileva la scomparsa, nel mondo artistico, della coscienza di classe circa la doverosa necessità di un sistema di “lavoro” sostituita da una costante impennata dell’offerta “selvaggia” da parte dei nuovi musicisti (che hanno troppo spesso l’esigenza di avere al più presto un riscontro “sul campo”). Adesso esiste un’oligarchia ristrettissima di jazzman che ha il privilegio di considerarlo ancora un vero e proprio lavoro, e che comunque se l’è guadagnato nell’attuale sistema sociale che glielo ha permesso e richiesto. Un “capitalismo dell’arte” la cui curva continua a salire. Rimanendo sulla metafora degli assi cartesiani: aumento preoccupante della curva dell’organizzatore musicista con relativo incremento di lobby e riduzione radicale della curva del numero di organizzatori veri, competenti e capaci. Il grafico della cultura lo vedo con due linee: quella della FORMA, che è alle stelle, contro quella ad essa inversamente proporzionale del CONTENUTO, la forma è assurta a contenuto! Conosco le cause di questi grafici e avrei i miei rimedi… ma questo in un eventuale prossima intervista…



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


LT: Magari di diventare in fretta musicista organizzatore! (ride – N.d.R.) In verità mi basta portare avanti i miei diversi progetti, consolidati e forti, e farli sentire a chi non li ha ancora sentiti. Intendo dal vivo, che è il motivo artistico vero e significativo del perché sono musicista. E quindi sto semplicemente progettando di suonare bene e dare emozioni al pubblico che in quest’anno appena cominciato ascolterà i miei concerti con Mattia Cigalini o con Roberto Taufic, con Dado Moroni, con Rachel Gould…