Nicola Sergio, il pianista “Migrante”

Foto: Gianni Grossi per Go Over!










Nicola Sergio, il pianista “Migrante”.

Abbiamo incontrato il pianista e compositore Nicola Sergio in occasione del suo brillante concerto tenutosi durante la rassegna milanese di Go Over, in cui presentava il suo progetto discografico intitolato Migrants.



Jazz Convention: Nicola Sergio, come nasce la tua passione per il jazz e la musica in generale?


Nicola Sergio: Sin da piccolo ho sempre amato improvvisare, anche quando studiavo la musica classica, ma mi riservavo sempre uno spazio per creare, improvvisare, non seguendo un linguaggio jazzistico. Questa, credo, sia stata anche la mia fortuna perché spesso iniziare con il jazz può imbrigliarti nelle sue tipiche strutture. Ciò mi ha dato, dopo, la possibilità di studiare jazz e utilizzare i suoi spazi di creatività in modo da non rimanere troppo legato al linguaggio strettamente afroamericano. Poi c’è stata l’esperienza di Perugia dove ho fatto studi di economia e frequentato il conservatorio. Li ho potuto studiare e creare gruppi jazz.



JC: Dalla Calabria, tua terra natia, passando per Perugia, sei giunto a Parigi. Perché proprio nella capitale francese, e non so, per esempio, Londra o New York?


NS: Perché Parigi è il centro del jazz in Europa. Ne parlavo, quando ero a Perugia, con i grandi musicisti italiani come Danilo Rea, Gabriele Mirabassi e suo fratello Giovanni, e altri. Tutti mi dicevano di andare a Parigi. Arrivando li mi sono accorto che era proprio così, nel senso che quella città ti dava la possibilità di confrontarti con mondi diversi e di capire quali sono le tue peculiarità.



JC: Quali sono i tuoi riferimenti nell’ambito musicale, sia per quanto riguarda il tuo “profilo” jazz che per quello classico e contemporaneo? Chi ti ha spinto a dire: devo fare il musicista?


NS: Per quanto riguarda il jazz ne ho diversi ma i miei preferiti sono Kenny Wheeler, John Taylor, Fred Hersch, e dei pianisti meno conosciuti ma con un livello armonico complesso. Questa cosa dell’armonia mi ha sempre attirato. E poi l’improvvisazione, la possibilità di creare delle melodie nuovo intorno a degli accordi, hanno sempre avuto un forte fascino su di me. Per quanto riguarda la classica, Ravel, Debussy e Stravinsky.



JC: Migrants, tuo ultimo disco da leader, arriva dopo un percorso formato da diversi altri titoli: quali sono?


NS: Migrants fa parte di un percorso che è cominciato nel 2008 con l’etichetta musicale Challenge, e che mi ha portato ad avere un contratto in esclusiva con loro. Grazie a questa casa discografica sono riuscito a farmi conoscere. Il mio primo disco si chiama Symbols realizzato nel 2010 in trio con l’aggiunta di ospiti come Michael Rosen e Javier Girotto; poi Illusions in trio con Stephane Kerecki al contrabbasso – adesso è un nome importante in Francia – e Fabrice Moreau alla batteria, musicista che suona stabilmente nel mio trio; fino ad arrivare a Migrants. C’è una parentesi con la Nau Records con la quale ho realizzato Cilea Mon Amour.



JC: Passiamo a Migrants. Come nasce questo progetto? È un lavoro articolato, che traccia un’ampia panoramica su diversi fronti musicali e contenutistici. Quanto tempo ha richiesto la sua realizzazione?


NS: Ci sono voluti tre anni di lavoro. L’idea di base è stata quella che partendo dalla mia vicenda, volevo parlare della storia dei migranti. Chiaramente non in un senso politico o giornalistico, ma dal punto di vista umano. Nei miei numerosi viaggi, anche da migrante, mi son imbattuto in tante persone da cui mi sono fatto raccontare diverse storie, tutte vere e vissute. Alcune cariche di drammaticità e di dolore. Altre particolari e “comiche”. Come la storia del napoletano che sbaglia nave, e invece di arrivare a New York, approda a Rio. Ho intitolato il pezzo Ryork. Dagli amici che vedo continuamente o quelli della mia terra dove torno spesso mi sono fatto raccontare degli episodi particolari che li hanno colpiti. Da lì ho preso spunto per scrivere la musica.



JC: Ascoltando Migrants, si ha l’impressione di essere di fronte a un lavoro variegato, dove il jazz è una parte del costrutto complessivo che comprende anche la classica, la contemporanea, quella impressionista, e la musica da film, come nel pezzo Ellis Island che ricorda i film muti degli anni venti. In sintesi da l’impressione di essere un progetto costruito per immagini, che le crea e a cui si lega…


NS: Giusta analisi! Il progetto è anche uno spettacolo con scenografia e video. Abbiamo creato un repertorio di immagini d’epoca con la regia di Nino Cannatà. Uno dei nostri collaboratori è Fabrizio Gatti che ha scritto il libro Bilal, che parla delle rotte dei clandestini, che ne descrive il percorso. È un disco cinematografico, nel senso che mentre lo scrivevo ho pensato che ci sarebbe stato uno spettacolo. Questo dava spazio anche alla mia creatività, mi permetteva di non chiudermi in un genere solo. Non scrivo mai perché devo scrivere. Lo faccio perché sento delle cose. Poi, quelle che non sono aderenti al progetto le scarto. Tutto quello invece che è funzionale lo inserisco, creando anche dei forti contrasti. Ci sono dei brani chiaramente jazz, con delle armonie ultramoderne, e altri che non lo sono, nel senso che sono musica da film come Ellis Island, e altri ancora che hanno anche una matrice pop, direi.



JC: Ci puoi raccontare la genesi di alcuni dei dieci brani di Migrants?


NS: Lampedusa nasce da quello che vedevo in televisione. È un brano che non si riferisce a una persona in particolare. Invece Rain in my lunch box mi è stata ispirata da Giancarlo Agresta, un mio amico che era migrato a Londra. Lui mi raccontava che quando apriva la lunchbox per mangiare non trovava altro che acqua piovana. È stato il primo pezzo del disco che ho composto. Invece Nowhereland descrive lo stato d’animo dell’emigrante che va via e si trova in una terra di nessuno, dove vive insieme agli altri con enormi difficoltà d’inserimento. Ricordo i miei primi periodi a Parigi, dove nessuno mi voleva affittare la casa perché pensavano che non avrei pagato essendo un musicista. Poi c’è Yuna che racconta l’esperienza dell’emigrante bretone che si è trasferito a Parigi per lavorare. Dunque, alcune di queste storie sono drammatiche, altre “comiche”, altre di vita vissuta, e si ritrovano tutte nel disco.



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