ECM Records – ECM 2460/61 – 2015
Mette Henriette Martedatter Rølvåg: sassofono
Johan Lindvall: pianoforte
Katrine Schiøtt: violoncello
Eivind Lønning: tromba
Henrik Nørstebø: trombone
Andreas Rokseth: bandoneon
Sara Övinge: violino
Karin Hellqvist: violino
Odd Hannisdal: violino
Bendik Bjørnstad Foss: viola
Ingvild Nesdal Sandnes: violoncello
Per Zanussi: contrabbasso
Per Oddvar Johansen: batteria, sega
Ai non strettamente nordico-cultori è probabilmente passata inosservata la prima sortita discografica della giovane sassofonista e creativa da Trondheim, e in effetti un album per doppio sax + batteria per i tipi (interessanti ma alquanto circoscritti) di 577 records e sotto la firma Aella trio poteva più che venialmente finir archiviato: sembra invece aver pagato di più affrontare di persona Herr Manfred Eicher durante le pause di uno degli innumerevoli concerti da questo seguiti per esporgli di persona il proprio progetto.
Quest’ultimo, quasi senza preamboli dunque, viene confezionato – evento raro nell’iconografia ECM – con un intenso ritratto di copertina, di cui tocca non tanto la lolitesca torbidità o l’eccentricità ricercata (che avrebbero assai poco respiro, ma non appaiono nocivi) quanto le tinte d’inchiostro di cui è strutturato, anticipazione incidentale del cangiante spirito impressionista che ricorre negli umori e nei segni del lavoro, laconico assai nel titolo e decisamente ancor più minimale nella titolazione dei due dischi e della maggior parte delle tracks, segnate da simbolismo elementare.
Elementari peraltro le particelle della micro-fisica compositiva, almeno in prima lettura, delle arie, suddivise in un primo disco strettamente in trio, per l’insolita formazione sax-piano-cello che sfugge agli intrinseci limiti cameristici per dar vita ad una più ariosa concezione non compressa entro i limiti temporali da miniatura, per una musicalità di trama lieve e calligrafismo austero, in cui le personalità solistiche vengono poste in secondo piano rispetto all’etereo disegno d’insieme.
Si espandono quindi i ranghi nel secondo momento discografico per ensemble a tredici elementi,
di cimento musicale apparentemente più articolato e complesso, che impiega (e variamente dispiega) un’orchestra da camera in jazz (e certamente viceversa) di ruolo molteplice, che non esordisce a sensazione nell’introduttivo passé, guadagna densità quartettistiche (pearl rafter, veils ever rafter, bare blacker rum), ma non tarda l’impennarsi delle tensioni, meglio disvelando la griffe solistica (wildheart, l’articolata I), fornendo con maggiori volto drammatico ed estensione semantica un’alterità speculare e dialettica rispetto alla controparte in trio.
Ammettendo non senza civetteria di esser priva di formazione compositiva, di fatto Rølvåg sdogana la connotazione trans-stilistica dei propri materiali verso una linguistica aperta ma di leggibilità non immediata: tra l’archeo-minimalismo alla Erik Satie e molte tracce del primo Novecento, la originaria Ambient Music e i creativi più estremi alla Dans les Arbres, la musicalità di Mette Henriette tocca punte disarmanti di musicalità introversa, mai prodiga di segni ma non per questo indigente, non solo in quanto riesce a definire precise tracce melodiche, sia pur dalla vita breve, e la voce del sassofono riesce ad intagliarsi un’identità modellata in accordo a stilemi nordici già noti e condivisi (e non già “si-fa-presto-a-dire-Garbarek”), di lignea scultoreità e fremiti di brace, che segnano e orientano la fisionomia dei brani, di costruttività concisa, tale un nipponico Haiku.
Si può connotare (certo più che tacciare) di imitativo dunque l’ambito estetico della performer nella misura in cui risuona (ed ampiamente, ad onor del vero) del reseau estetico condensatosi lungo decenni di nu-jazz; ma le miniature firmate Mette Henriette s’installano e conferiscono corpo ad un lavoro nell’insieme compiuto, spesso criptico e non estraneo a stimolanti dimensioni enigmatiche.
Il volto nordico del suono in rosa qui guadagna una fisionomia creativamente androgina d’interessanti amalgame, di trame chiaroscurali ed assai pallida solarizzazione, scandita da picchi drammatici, legittimanti una volta tanto quanti abbiano mai azzardato l’espressione jazz da camera – pur nel limite della formula.
Sul fascino della musicalità ora acquea e sospesa, ora animata e tranciante esposta dalla giovane norvegese – simbolico mondo poetico in cui s’incontrano brezze e metallo – sospendiamo gli entusiasmi, posponendoli nella più prospettica valutazione di questa personalità nel proprio ulteriore divenire.
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