Foto: la copertina del disco
Marco Detto racconta la sua “Alma” in piano solo.
Alma è l’ultimo progetto in piano solo di Marco Detto. Un disco vitale, di forte passione e sentimento.
Jazz Convention: Marco Detto, tu sei un pianista autodidatta. Come hai cominciato?
Marco Detto: Si, sono un pianista autodidatta. Ho iniziato all’età di 11 anni, circa, grazie a mio padre che suonava la chitarra. A quei tempi acquistò anche un organo Tiger Eko e mi insegnò i primi rudimenti. Cominciai a eseguire tutte le canzoni che sentivo, per lo meno quelle che riuscivo ad eseguire. Da li il passo al conservatorio di Teramo fu breve. Purtroppo essendo le classi di pianoforte molto affollate, il direttore del conservatorio mi fece iscrivere al corso di violoncello, splendido strumento che tutt’oggi adoro, ma allora undicenne catturato dal fascino del tasto bianco e nero, poco apprezzai tale scelta. Dopo quattro anni, interruppi lo studio del violoncello e continuai a suonare l’organo per conto mio e, in seguito, il pianoforte.
JC: Perché hai deciso di suonare jazz? E cosa rappresenta per te questa musica?
MD: Ho iniziato a suonare in gruppo all’età di 15 anni, si suonava la musica di Santana, Pink Floyd, Deep Purple, PFM, Banco Del Mutuo Soccorso, Area e parallelamente, cominciai a nutrire interesse per il jazz, che conobbi grazie ad alcuni ascolti radiofonici – a quel tempo era ancora possibile grazie anche ad alcune trasmissioni televisive della RAI pomeridiane. I primi due vinili che acquistai furono di Errol Garner, Oscar Peterson, Modern Jazz Quartet e Mr Gone dei Weather Report, dischi che all’epoca ho letteralmente consumato. Come potrai notare i miei ascolti non seguivano un criterio storico; per un po’ di tempo ho ascoltato un di tutto in maniera casuale, attingendo sia alla tradizione e sia al panorama contemporaneo di allora. Sicuramente l’improvvisazione estemporanea mi catturò maggiormente rispetto alla musica che avevo suonato sino ad allora. La musica per me è assolutamente tutt’uno con quello che siamo e che ognuno vive, ed è un mezzo per osservarsi e conoscersi. Per questo penso che si debba suonare quello che si è e non quello che vorremo essere. Lavorare per ottenere una profonda coscienza e consapevolezza di quello che suoniamo, e quindi di noi stessi, affinchè la meccanicità nell’atto dell’invenzione non abbia il sopravvento sulla magia della ricerca del “sorprendente”. Questo non vuol dire affidarsi alla casualità, ma bensì affrontare l’atto creativo in maniera profonda, uno studio che non avrà mai fine, alla ricerca di una consapevole ingenuità e spontaneità nel suonare libero da condizionamenti mentali che possa generare una musica che arrivi al cuore, alla mente ed alla pancia.
JC: Come jazzista ti senti più afroamericano o europeo?
MD: Come jazzista, sicuramente all’inizio sono stato attratto dall’aspetto più ritmico ed armonico di questa musica e lo sono ancora, ma ben presto nel mio approccio compositivo e di conseguenza in quello dell’invenzione estemporanea si è rivelata a me la melodia, un elemento che è sempre presente e fondamentale. Certamente nel mio modo di suonare sono presenti tutti i pianisti che ho ascoltato e che mi hanno influenzato: Errol Garner, Oscar Peterson, Bud Powell, Thelonious Monk, Mc Coy Tyner, Herbie Hancok, Chick Corea, Bill Evans, Paul Bley, Keith Jarrett, Michel Petrucciani, Dollar Brand, Duke Ellington, Hank Jones,Tommy Flanagan, e tantissimi altri. Penso di sentirmi un jazzista afro-italiano, per l’attenzione rivolta al ritmo ed alla melodia.
JC: Che ricordi hai del tuo primo disco da leader?
MD: Ricordo il mio primo lavoro, I Sogni Di Dick, con grande piacere anche perchè in seguito ad alcune richieste da parte del mercato del sol levante, è stato ristampato proprio l’anno scorso. Incisi i Sogni di Dick nel 1992 con Marco Ricci e Giorgio Di Tullio grazie a Lorenzo Busnari, direttore artistico dell’etichetta Musicattiva. Il cd era costituito da sei miei brani originali, due di Ricci ed una rivisitazione di Anema e Core. Ricordo l’entusiasmo di quel momento bellissimo.
JC: Da allora quanti ne hai incisi e a quale sei più legato?
MD: Ho inciso tredici dischi, con due ristampe in Giappone per La Sound Hills Label. Sono legato a ognuno dei miei lavori, sono parte della mia vita. Quando li riascolto mi rendo conto che con il passare del tempo, gli incontri, gli accadimenti in questa esistenza, mi hanno fatto arrivare ad una percezione della vita, della musica e dell’atto creativo in sé sempre più attento e consapevole. È un viaggio spirituale e una ricerca che non finiranno mai. Riascoltando i miei vecchi lavori apprezzo l’essenza e la passione con cui ho affrontato la musica. Sicuramente, le incisioni fatte con quattro giganti del jazz hanno rappresentato dei momenti molto importanti per la mia carriera: la prima nel 1994 per l’etichetta Mingus (sempre grazie il mitico produttore Lorenzo Busnari) con Peter Erskine e Palle Daniellsson; la seconda nel 2001 con Eddie Gomez e Lenny White a New York, incisione nata da una precedente collaborazione e intesa. Infatti nel 2000 fui chiamato da Eddie Gomez a sostituire Chick Corea e McCoy Tyner per due concerti sull’isola d’Elba con Lenny White e Jeremy Staig.
JC: Veniamo ad Alma, tuo ultimo lavoro. È in piano solo. Ascoltando il disco si coglie una forte vitalità e gioia di suonare…
MD: Sono passati dieci anni da Ripples, il mio precedente lavoro di piano solo, e volevo ripetere questa esperienza. Il produttore Alessio Brocca ha subito condiviso la mia idea, e nel mese d’agosto del 2015 ho registrato il lavoro in un’unica sessione come fosse un concerto dal vivo senza ripetere nessuna take, all’incirca due ore di musica, li ho riascoltati ed ho scelto quelli che mi convincevano maggiormente. Sono contento che tu abbia percepito gioia ascoltando la mia musica. Trasmettere gioia, sentimenti, commuovere, far venir voglia di danzare, penso sia il compito della musica, e per far si che tutto questo accada il primo ad emozionarsi ed a sorprendersi deve essere assolutamente l’esecutore.
JC: Alma comprende undici brani suddivisi tra standard e tue composizioni. Come sei riuscito a integrarli nel tuo progetto? I cinque brani originali nascono per questo disco, oppure li hai composti in momenti diversi?
MD: Avevo già inciso le mie composizioni che appaiono nel cd, in trio e quartetto nei dischi Da Lontano, del 2003, Altrove, del 1998, e Blue Stone del 2005, ma non li avevo mai incisi per pianoforte solo, eccetto Mister Rothko presente in Ripples. Per quanto riguarda gli standard ho scelto quelli che sentivo più vicini alla mia poetica. Ho voluto registrare The For Two perchè è stato il primo brano grazie al quale mi sono appassionato al jazz. L’ho voluto rivisitare.
JC: Il tuo nuovo disco sarà ancora in piano solo o hai un’idea diversa?
MD: Il mio prossimo progetto lo realizzerò quest’anno e lo inciderò in trio. Sarà costituito da sette mie composizioni originali e due standard.
Segui Flavio Caprera su Twitter: @flaviocaprera