NoBusiness Records – NBCD 70 – 2015
Dave Burrell: pianoforte
Steve Swell: trombone
Terzo entro un progetto di cinque suites dedicate agli eventi della Guerra Civile americana, Turning Point segna un ulteriore coronamento della carriera del veterano pianista dell’Ohio, già sodale di nomi forti della generazione appena post-coltraniana, successivamente titolare di un ampio ventaglio di lavori primariamente di ricerca, nel caso presente teso alla disamina in arte delle collisioni storiche che condussero alla prima emancipazione del popolo afro-americano.
Più particolarmente, in veste di compositore-residente presso il Museo-Biblioteca Rosenbach della Libera Biblioteca di Filadelfia, Dave Burrell ha potuto ulteriormente accrescere la consapevolezza storica della catena di eventi e movimenti che sono la principale argomentazione di importanti frange della cultura non soltanto in jazz.
L’arruolamento del trombonista Steve Swell, certamente apparentato all’area free pur se di autonoma posizione stilistica, riesce particolarmente funzionale vista le serrate intesa ed embricazione formale da parte di due spiriti liberi in musica, tangibilmente molto compartecipi nella drammatizzazione di istanze socio-politiche statunitensi in realtà d’interesse planetario e tutt’altro che pacificate.
“Così come vi sono fronti opposti in guerra” recitano le argomentate note di Ed Hazell “forze opposte sono al lavoro in musica: la gioia è mitigata dalla sofferenza, la mitizzazione della storia bilanciata dalla realtà storica”.
Non si risparmiano le contraddizioni e le collisioni formali lungo questa esposizione linguisticamente scabra, tesa e muscolare nella veemenza espressiva, con pochi sconti a levigatezze formali e tutto sommato libera nelle progressioni espositive; Turning Point, tra i suoi molteplici punti d’interesse ed ispirazione, sembra implicare per Burrell un carico rappresentativo di statura ellingtoniana, considerata la messa in opera (ma con assai più limitati mezzi) di complessi e per lo più non-lineari piani drammaturgici.
Il collage di temi ottocenteschi (che anche un orecchio generalista riconoscerà nel repertorio di quegli accompagnamenti pianistici delle pellicole d’epoca), ribattuti da entrambi le mani del pianista sia in forma ritmica che di sincope proto-melodica e vigorosamente incalzati dal trombone, d’interventismo teso e lacerante, è materiale vivo su cui s’imbastisce l’iniziale One Nation, titolo che innesca spunto polemico sulla principale tematica del lavoro; il protratto piano-solo Paradox of Freedom è sequenza angosciante sull’efferato carico di violenza e sugli estranianti vuoti dell’anima che s’interpone tra le rievocazioni piuttosto letterarie di due “punti di svolta” bellici (Battle at Gettysburg, Battle at Vicksburg), fitte di veemenza che i due strumenti riescono a liberare con orchestrale possanza.
Il carattere di rivisitazione storica e denuncia non sminuisce l’impegno formale e l’interesse di un approccio d’ispirazione filologica, ma in buona parte meta-stilistico, e l’incisione, non unicamente per la sua coerente continuity, svela “naturale” attitudine rappresentativa e propensione alla polemica storica, da cui il carattere civile delle musiche ma anche del dibattito cui il pubblico è invitato a fine esecuzione.
“Io scorgo speranza nelle discussioni ad ogni fine concerto” ci tiene a puntualizzare il pianista: “La gente, ma anche gli storici di quest’area di interesse, direbbero di sentirsi rinfrancati per quanto risulti più approfondita la loro comprensione di questo conflitto; e magari più ci sforzeremo di comprendere la guerra, più si spera questa musica possa servire d’ispirazione per la futura pace”.
Spunto ulteriore di meditazione – e d’ascolto.