Foto: la copertina del disco
Radio Interference, il nuovo disco di Forthyto.
Radio Interference è il nuovo progetto di Vito Quaranta, Forthyto. Gli abbiamo fatto una serie di domande sul suo ultimo lavoro pubblicato per l’etichetta discografica Dodicilune.
Jazz Convention: Chi è Forthyto? Qual è il significato di questo nome?
Vito Quaranta: Forthyto è lo pseudonimo dalla rocambolesca genesi al quale sono legato da oltre 20 anni. Il caso ha fatto la sua parte ed io sono stato lì a coglierlo come spesso succede a dei buoni ed attenti improvvisatori. Il mio cognome Quaranta appunto è chiaramente traducibile in Forty in inglese e agli albori di Internet un mio caro amico, che mi creò la casella postale, erroneamente lo scrisse con una “H” in più mutando completamente il suo significato. Forthy non esiste ma subito realizzai che questa casualità aveva un significato. Se “Forth” significa avanti, guardare oltre, la Y a mo’ di ideogramma la sdoppiai in V e I che, con l’aggiunta delle lettere rimanenti T e O formano appunto il nome Vito. Insomma un puzzle linguistico che rappresenta a pieno la mia idea di fare musica al di sopra delle categorie e delle barricate dettate dalle etichette.
JC: Quale è stata la tua formazione di chitarrista? I tuoi idoli, quelli che ti hanno “costretto” a scegliere la chitarra?
VQ: Credo di aver incominciato a muovere le mani sulla chitarra dall’età di 6 o 7 anni e sono stato autodidatta fino all’età di venti anni. Il mio primo guitar hero è stato mio fratello Beniamino. Da lui imparai i rudimenti, ma fondamentalmente facevo tutto da solo estrapolando dalla vecchia Eko qualsiasi tipo di suono. Poi i primi gruppi, il rock, la West Coast e l’incontro con George Benson a 16 anni con l’album Blue Benson che mi cambiò letteralmente la vita. Il solo di Billie’s Bounce lo cantavo a memoria. Quindi cominciai ad allargare i miei orizzonti tornando indietro. Da Charlie Christian in poi divoravo qualsiasi cosa, da Django Reinhardt a Wes Montgomey e Pat Martino alle avanguardie di Derek Bailey e Sonny Sharrock passando attraverso il blues di Robert Johnson, il rock di Jimmy Page, il progressive di Steve Hackett, la classica e il fingerstyle di Michael Hedges, insomma un onnivoro delle sei corde. Poi l’esperienza in Conservatorio e le Master Class con Joe Dioro, Mick Goodrick, Mike Stern, Pat Metheny e Scott Henderson e a New York presso l’American Institute of Guitar, hanno in un certo senso formalizzato la mia visione delle cose.
JC: Interferenze radio, sarebbe così tradotto in italiano il titolo del tuo ultimo disco. Ma quali sono queste interferenze? A cosa alludi?
VQ: Radio Interference è un lavoro di totale riscrittura di brani che hanno interferito nella mia sfera non solo musicale ma emozionale. Un percorso nella memoria di brani che hanno un valore inevitabilmente musicale, ma altresì segnate da un legame fortemente personale. Musica che ti segna e che con il tempo assume un valore diverso rispetto a molta altra alla quale si è comunque indissolubilmente legati. Musica che ha interferito e che continua a farlo con la tua persona, con momenti cruciali della vita, fatta di scelte e passioni più o meno consapevoli.
JC: Radio Interference lo hai realizzato in trio con l’apporto di ospiti prestigiosi. Come hai scelto questi musicisti e perché?
VQ: Tutto è nato con l’apporto e l’entusiasmo di Antonello Salis, un riferimento per me che conosco dai primi anni ’90, nel voler collaborare a questo progetto. È stato lui in un certo senso stimolarmi. Gli ho fatto ascoltare alcune demo dei brani e lui è rimasto molto colpito, da quel momento ho cominciato a lavorare sui brani che potevano far parte della progetto e conseguenzialmente a quelli che potevano essere gli ideali compagni per quello che stavo facendo. Con Giorgio Vendola collaboro con i miei progetto da circa 8 anni mentre con Mimmo Campanale che è la persona che conosco da tantissimo tempo ci eravamo sempre promessi di fare qualcosa insieme occasione che subito abbiamo sfruttato. La scelta di Luca Aquino è stata occasionale. Llo avevo invitato a suonare con il suo Skopije Connection e parlandogli di questa mia idea ho colto al volo la sua estrema disponibilità. Con Arup Kanti Das ci siamo sentiti telefonicamente più volte e parlandogli degli arrangiamenti dei brani ai quali ha partecipato – Caravan e Four Sticks – non ha resistito al fascino che il suo apporto avrebbe donato a questi brani iconici. Indipendentemente da tutto, quello che mi interessava era mettere su un progetto di persone che aldilà delle loro indiscusse capacità musicali potessero aggiungere quel pathos, forza emotiva appunto che cerco sempre nella musica e nei musicisti.
JC: Il disco contiene dodici brani, potremmo definirli degli standard, o quasi, che tu hai arrangiato. Come è nata l’idea di fare un disco di soli “standard”, che vanno da Esteem di Steve Lacy a You Don’t Know What Love is?
VQ: Come ti dicevo, la scelta dei brani era enorme perché sono veramente tanti i brani che per me sono significativi, ma avrei avuto bisogno di un CD doppio, almeno. Non doveva essere soltanto un doveroso e sincero tributo ma doveva, dal mio punto di vista, spostare un po’ più in là il concetto della composizione stessa donandole una nuova luce. Non è stato facile scegliere i brani che avrebbero composto l’opera ma alla fine ho dovuto soffermarmi su due elementi fondamentali, la possibilità di dire qualcosa di nuovo e che le stesse rappresentassero per me tappe importanti della mia attività e musicale che emozionale, come ti ho detto. Così si passa dal sound metropolitano di Esteem, qui come dedica aperta all’uomo comune, alla quasi operistica Prism, dall’ambiente west coast di Last Train Home al folk di Lucignolo di collodiana memoria, dalla rarefatta How far can you fly? alla cameristica Cavatina, tutto passando per la mantrica versione di Caravan alla poliritmica ritualità di Four Sticks e giungendo alla più sperimentale On Green Dolphin Street. In tutto questo mi sono ritagliato degli spazi in solo che vanno da una versione acustica di The Cure che crea l’illusione di due chitarre che eseguono il tema al Preludio #1 dove composizione e improvvisazione si inseguono in un flusso continuo, concludendo appunto, con l’eterea versione di You don’t know what love is dove a cappella, il brano viene cantato sfruttando le risonanze della chitarra acustica. Quasi a testimoniare una Radio appunto che salta attraverso le interferenze da una stazione ad un’altra soffermandosi sempre sulle migliori, si spera.
JC: C’è anche How Far Can You Fly?, un brano di Luca Flores. Che significato riveste per te questo pezzo?
VQ: Enorme. Non ho purtroppo avuto la possibilità di conoscerlo né di assistere ad un suo concerto forse per questo la sua prematura e drammatica scomparsa ha enfatizzato in me una profonda malinconia, donandoci questa meravigliosa perla. La melodia di questa sua composizione è sempre stata presente nella mia testa quasi in maniera ossessiva, ma non avevo mai pensato ad una sua rivisitazione fino a quando non vidi il film “Piano solo”, tratto dal romanzo di Walter Veltroni “Il disco del Mondo”. Il film, unito alla lettura del libro “Angela, Angelo, Angelo mio, io non sapevo” di Francesca De Carolis, ha espanso la conoscenza sulla complessa, fragile e tormentata personalità del pianista palermitano. Posso solo pensare a Luca come ad un’anima, di origine divina, che caduta sulla terra ed imprigionata nel corpo a causa di una colpa originaria ha come suo fine ultimo quello di ritornare alla patria celeste, suo luogo originario.
JC: In Radio Interference ti si sente anche cantare…
VQ: Si, è vero. Cosa che faccio solo con le cose che mi appartengono e che sento mie, come del resto è successo nei miei precedenti lavori. Qui il lavoro è stato più complesso perché a parte You don’t know what love is e alla sua sperimentale e credo inaudita performance, per gli altri brani ho scritto dei testi originali. Tutto è nato molto spontaneamente immedesimandomi negli artisti che hanno composto questi determinati brani espandendo un mio pensiero attraverso la condivisione della loro traccia iniziale. Il primo testo che ho scritto è stato Prism di Keith Jarrett, è successo dopo che ho letto il libro di Ian Carr; rimasi molto colpito dal momento in cui Jarrett generò la composizione, in aereo, con una nuova compagna, insomma una nuova vita, una sorta di rinascita che ancora una volta ci spinge ad essere determinati in quello cha facciamo. Spinto dal risultato ottenuto da Prism mi sono ritrovato ad abbozzare il testo di Last Train Home di Pat Metheny anche questo a sua volta estrapolato da un momento della vita di Metheny stesso. Legato ad un ricordo della sua infanzia e del treno che passava vicino casa sua mi ha lasciato pensare al fatto che per quanto viaggiamo e vediamo il mondo il legame con la terra natia è indissolubile e diventa rifugio di ideali profondi e sinceri come quelli che solo i bambini hanno. Più complesso ed elaborato è stato quello di How far can you fly? di Luca Flores, pieno di cenni mitologi e cenni metafisici come ho precedentemente spiegato.
JC: È giusto definire il tuo disco a metà strada tra jazz, world e rock?
VQ: Quando ascolto musica l’elemento che ricerco e dal quale sono più coinvolto è l’idea che la stessa possa essere universale. Intellegibile a profondità diverse e percepibile all’ascoltatore indipendentemente dal suo bagaglio culturale e conoscitivo. Sono un musicista contemporaneo con una formazione non proprio accademica e come tale penso ad una bellezza che va al di là delle etnie musicali. Quando qualcosa mi interessa e la reputo bella non ha un livello di bellezza ma ha pari dignità fra le altre cose. Se proprio c’è una differenza la facciamo noi con quello che proponiamo, con la nostra idea con la nostra soggettività. Penso che le esperienze di un uomo servano tutte. Mi piace fare sempre l’esempio del setaccio: noi mettiamo tutto dentro e poi rimangono pochissime cose, le più importanti e rappresentative.
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