Marco Testoni: lo stupore tra musica e immagini

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Marco Testoni: lo stupore tra musica e immagini


«Ciò che nel fulmine abbaglia, fa chiudere gli occhi e fa esclamare AH!» Questa frase del Kena Upanishad spiega il senso del titolo insolito dell’ultimo disco di Pollock Project. “Ah!” è lo stupore, la sorpresa per la bellezza e per l’infinita varietà delle sue forme. Così il disco del trio romano è un accumulo di materiali sonori, non solo musicali: spezzoni radiofonici, cori da stadio, discorsi di leader politici. È una narrazione musicale variegata, pensata per un discorso artistico complessivo, in cui i suoni diventano anche immagine,
in cui i generi si sovrappongono e sfumano in un discorso “altro”.»



Ho chiesto a Marco Testoni, il percussionista romano e leader di del trio in cosa consiste questa “alterità”.


«La parola contaminazione forse non è bellissima ma si può utilizzare senza troppi scrupoli per il nostro progetto. Perché, di fatto, “Ah!” smonta e rimonta i linguaggi musicali e li fa interagire con quelli della comunicazione visiva. Potremmo parlare, e ne abbiamo peraltro spesso parlato, di un tentativo di arte visuale, di Art-Jazz. Non è un’operazione pensata a tavolino. Questa ricerca nasce, di fatto, dalla mia esperienza quotidiana. Io mi guadagno da vivere come compositore e consulente musicale nell’ambito del cinema, sia nell’ambito della realizzazione lungometraggi che della pubblicità. Scrivo anche colonne sonore, ma spesso il mio compito principale è quello di riempire una storia cinematografica di contenuti musicali. Nel cinema la musica viene usata al servizio delle immagini. Per una sequenza può funzionare un brano classico, un’aria d’operetta, un pezzo di musica elettronica. Il mio compito sta nel trovare le soluzioni migliori e confrontarmi con esse con il regista e gli autori. Ebbene questa storia personale e professionale è stata per me un ingrediente indispensabile nell’ideazione e nella creazione delle musiche di Pollock Project: sono abituato quotidianamente a maneggiare materiali musicali disparati e farli interagire con le immagini. L’emozione artistica non è quindi mai, nel mio vissuto, legata a una sola dimensione. Non penso ci sia una musica priva di interesse semmai il problema può essere il modo in cui viene usata. Le immagini contano per me quanto le note: qualunque immagine e qualunque nota. Ultimamente ho lavorato per Paolo Genovese in Perfetti Sconosciuti, per Marco Bellocchio in Fai bei sogni e con Gabriele Mainetti in Lo chiamavano Jeeg Robot, ma in passato, e non me ne vergogno, ho anche collaborato con Massimo Boldi che è un vero e proprio sostenitore del ruolo della musica nel cinema. Oggi, nella nostra vita quotidiana dominata dalla comunicazione televisiva e telematica, musica e immagini sono sempre più legati. Questo rapporto ha creato linguaggi musicali nuovi. Se ascoltiamo una musica tendiamo, spesso inconsciamente, a legarla a delle immagini. Non era così prima dell’avvento dell’era digitale. Il che, inevitabilmente, apre prospettive nuove, orizzonti inediti. Sto ultimando per le Edizioni Audino un libro, che uscirà in luglio, su questo argomento: Musica e visual media.»



La formazione del gruppo è cambiata moltissimo rispetto a quella del primo disco. Come hai scelto Simone Salza ai fiati ed Elisabetta Antonini alla voce?


«Simone lo conosco da molto tempo: è un eccellente musicista che, avendo lavorato molto nell’ambito del cinema, sa adattarsi al lavoro che facciamo sulle immagini. Mi sembrava perfetto per Pollock Project. Ha suonato con autori del calibro di Ennio Moricone e Nicola Piovani. È duttile, interpreta con naturalezza tutti gli stili e improvvisa magnificamente. Per la voce cercavo un’artista che non fosse solo una cantante. Volevo qualcuno capace di dialogare con le sonorità elettroniche di cui AH! fa largo uso ma anche di utilizzare la parola e la voce come uno strumento. Elisabetta ha inciso due anni fa un disco bellissimo, The Beat Goes On, nel quale interagisce con le voci registrate, tratte da materiale d’archivio, dei grandi poeti della beat generation. Era la vocalist ideale per un progetto come il mio, nel quale non solo si incontrano e si disgregano le concezioni dei generi musicali, ma in cui c’è una dialettica sonora continua fra suono e parola, fra echi del passato e voci del presente. Ho scelto bene: Elisabetta e Simone sono semplicemente magnifici. Io ho aggiunto ai miei soliti handpan, anche il pianoforte e la batteria. Ho poi chiamato altri strumentisti dotati di una certa “open mind” per arricchire i singoli brani: Mats Hedberg, Primiano Di Biase, Andrea Ceccomori, Simona Colonna, Stefano Roffi e Daniela Nardi.»



La nostra vita quotidiana è intrisa di suoni. Ascoltiamo musica al ristorante, negli ascensori, al supermercato. Non hai pensato che un progetto come “Ah!” poteva diventare, in qualche maniera, una riproposizione di questo inutile profluvio di note e suoni che assedia la nostra vita?


«Ci ho riflettuto, molto. E sono arrivato alla conclusione che gran parte di quello che ascoltiamo forzatamente sia intrattenimento della peggior specie. Anche Mozart o Miles diventano meri fondali sonori, quando non un mezzo per invogliare qualcuno a comprare merci. Quest’uso scriteriato avvilisce l’espressione artistica. Io provo a rovesciare il discorso. Mi addentro nella foresta di suoni nella quale viviamo e cerco in essa delle storie importanti, delle emozioni vere, degli spunti di riflessione. La quarta traccia del disco parte, ad esempio, dalla voce registrata di Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso, assassinato quasi trenta anni fa. È il suo discorso più celebre, quello sull’abbattimento del debito dei paesi poveri, ancora drammaticamente attuale. Su alcune battute di questo discorso ho inserito un commento musicale con accenti jazz, dub e ispirati alla tradizione musicale africana. Sono tanto consapevole del rischio di cui mi parlavi che la traccia successiva si chiama Gonzo Entertaiment e cerca di raccontare la futilità del mondo della televisione d’intrattenimento. Il tema conduttore è scritto in uno stile parodisticamente manouche ed è punteggiato da sequenze di parlato del tutto vacue e incongruenti. Una certa idea di spettacolo si sovrappone ad una musica meravigliosa come il jazz gitano e lo tramuta in un qualcos’altro di poco definibile e digeribile. Io provo a trovare l’arte nella Babele di suoni dei nostri giorni. Certo, nel disco abbiamo “messo le mani” anche su un pezzo come Naima dandone una lettura non proprio accademica ma spero originale. Il jazz non è una forma d’arte cristallizzata. Può essere riletto, conservandone però tutta la poesia.»



L’ottava traccia del disco omaggia Anna Blume, la poesia dadaista scritta nel 1919 da Kurt Schwitters. Nel disco il brano è accompagnato da un video realizzato da Istvan Horkay, già collaboratore di Peter Greenaway. Ci sono altre collaborazioni con artisti visivi nel disco? Quali?


C’è stato soprattutto un fitto dialogo con Andrea Bigiarini e con il NEM (New Era Museum). Si tratta di un gruppo di artisti internazionali che stanno lavorando nella Mobile Art sulla cosiddetta Iphoneography, ovvero una fotografia sperimentale basata sull’utilizzo dei telefoni cellulari e di altri supporti digitali mobili. La decima traccia, ad esempio, è la colonna sonora di una photoshooting del NEM, ho ripreso le voci che animavano il loro set e le ho inserite in Impossible Humans. Con il NEM abbiamo prodotto uno spettacolo “The Unexpected Happening” che si compone di un concerto, una mostra, un set ed un contest fotografico. Lo abbiamo presentato lo scorso Marzo all’Auditorium Parco della Musica di Roma e contiamo di portarlo in giro per l’Europa. Questa comunque non è l’unica collaborazione con artisti visuali: anche Pelham nasce da un lungo dialogo artistico con il regista newyorkese Mark Street,con il quale abbiamo iniziato a lavorare un paio d’anni fa. Insomma, in questo dialogo fra le arti, in un utilizzo del jazz come linguaggio universale, nella rilettura e riproposizione di materiali musicali del passato con uno sguardo al futuro, abbiamo cercato di pensare ad un sound che potesse essere anticonvenzionale, profondo e al contempo che creasse un ponte fra passato e futuro. Un linguaggio per chi semplicemente ami la musica e ami ancora sperimentare…»