Foto: la locandina del film
Miles Ahead, la colonna sonora
Si spera che esca anche in Italia, entro l’anno, Miles Ahead, il film su Miles Davis scritto, diretto e interpretato da Don Chearle, che si basa sulla celebre Autobiografia del “divin trombettista” o “principe delle tenebre” che dir si voglia.
In America, dove s’è visto già dall’autunno scorso, il lungometraggio continua a suscitare polemiche talvolta ridicole, che riguardano dettagli marginali (come il modello di tromba usata) e invece perdono di vista i discorsi sugli aspetti narrativi e sui valori artistici che un’opera cinematografici deve comunicare.
Ciò detto, per ragioni di marketing, come si sa, in Europa esce quasi sempre prima la colonna sonora e dunque ecco a disposizione in unico CD lo score con ben 24 tracks, otto dei quali sono brevi dialoghi, in cui si sente la voce afona e inimitabile (colpa di un’operazione chirurgica) dello stesso Miles Davis. Il soundtrack procede in ordine cronologico presentando la magistrale e costante evoluzione di una ricerca stilistica che per valore e varietà non ha eguali nella storia del jazz, in un arco di tempo tutto sommato ristretto visto che la parabola di Miles Davis iniziale 1945 nel quintetto di Charlie Parker e termina con la morte improvvisa (1991) preceduta dalla collaborazione con il rapper Easy-Mo Bee: il CD tuttavia evita questi due estremi rifiutando sia con le sperimentazioni di poco successive (la tuba band e il capolavoro The Birth Of The Cool) sia con la versatilità pop-jazz degli Eighties (con picchi espressivi quali Tutu, Aura, Siesta, The Hot Spot). Di conseguenza, il disco si concentra fra gli anni Cinquanta e Settanta, antologizzando comunque diverse masterpieces: si parte infatti con la versione di Miles Ahead del 1956 in quartetto con John Lewis, Percy Heath, Max Roach, sia procede con il decisivo modale di So What (e i vari John Coltrane, Cannonball Adderley, Bill Evans come “spalle”) e con le orchestrazioni spagnoleggianti di Solea (Big Band diretta da Gil Evans), e si arriva alla messa a punto del celebre Golden Quintet (1963-68) dapprima con George Coleman, poi con Wayne Shorter: è qui il periodo meglio documentato con ben tre brani – Seven Steps To Heaven, Nefertiti, Frelon Brun – che spingono verso un’inedita prospettiva sonora, poi realizzata con il cosiddetto jazzrock (1969-70) esemplificato sia da Duran sia da Go Ahead John; gli ultimi pezzi riguardano l’ulteriore sviluppo dell’elettrificazione avaguardista verso un free-funk (1972-75) ben evidenziato da Black Satin e da Prelude, mentre Black Seat Betty (1981) segna il ritorno in scena con proposte meno elucubrate.
L’album però finisce con quattro song appositamente commissionate da Don Chearle al tastierista Robert Glasper, il quale compone appositamente in stile funk avvisandosi al giovane Keyon Harold per il sound trombettistico di Junior’s Jam e Francessence in quintetto, mentre nella conclusiva What’s Wrong With That? tornano due storici comprimari, Herbie Hancock e Wayne Shorter, a dar man forte a un formidabile settetto. Aspettiamo però il film per giudicare l’impatto della musica sulle immagini.