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Umbria Jazz 2016
Anche quest’anno a Perugia si è rinnovata la consueta atmosfera elettrizzante che da sempre caratterizza un festival di portata eccezionale.
Dieci giorni intensi di musica a tutte le ore sfiancano anche gli ascoltatori più energici ed esaltati ma lasciano addosso un entusiasmo che tarda ad affievolirsi. Certo come ogni anno è impossibile approvare ogni scelta della direzione artistica – del resto la selezione è così ampia per catturare più orecchie possibile – perché giustamente un festival di tale calibro deve coinvolgere grandi folle e quindi spaziare tra i generi. In compenso, se si può storcere il naso nel vedere il nome di Mika nel cartellone di un jazz festival – l’anno scorso era quello della star Lady Gaga a far inorridire i puristi del jazz – anche gli appassionati dal palato sopraffino hanno avuto modo di dilettarsi con concerti ricercati come perle rare. Una precisazione: chi scrive ha seguito, anche se intensamente, solo qualche giorno del festival.
Iniziamo con le perle rare: bellissima la serie di concerti alla sala Podiani della Galleria Nazionale dell’Umbria dedicata alla Tuk Music, la raffinata etichetta di Paolo Fresu. Musicisti giovani e con progetti eccellenti incantano un pubblico attentissimo in questa sala dal passato importante. Come ci tiene a ricordare il presentatore, la sala Podiani ha ospitato concerti storici come il duo di Pat Metheny con Charlie Haden, o il piano solo di Brad Mehldau con cui Umbria Jazz diede un segnale forte dopo il terremoto del 1997 per mostrare quanto la città fosse viva e attiva. In questa cornice speciale si alternano gli artisti di punta della Tuk Music, Dino Rubino, Raffaele Casarano, Mirko Signorile e Marco Bardoscia, in progetti intimi che mostrano l’alto livello del jazz italiano. Partecipi di un filone europeo che nulla ha da invidiare al jazz afroamericano, questi artisti sono accomunati da un’attenta ricerca melodica che sfocia in un lirismo intenso. La strada che percorrono valorizza quindi un tratto musicale che storicamente scorre nelle nostre vene e rappresenta una peculiarità su cui continuare a puntare. Durante il festival era inoltre possibile visitare negli stessi spazi la mostra fotografica Musiche di Lelli e Masotti, una selezione di bellissimi scatti che spaziano tra classica e jazz immortalando grandi interpreti di ieri e di oggi.
Una sorpresa è stato invece vedere un ragazzino di tredici anni sconcertare il pubblico del Teatro Pavone. Si tratta di Joey Alexander, vero talento e enfant prodige del pianoforte, originario dell’Indonesia – ma sembra nato a Kansas City e cresciuto a pane e blues – che Umbria Jazz ha voluto come artista residente per un totale di sette concerti. Davanti a questi talenti spiazzanti la prima reazione è spesso quella di storcere il naso – si pensa sempre a qualche bambino asiatico legato al suo strumento giorno e notte da genitori spietati che sognano il successo – ma in questo caso si tratta di sincera bravura: Joey non vuole stupire ma dedicarsi con onestà a fare grande musica. E ci riesce davvero bene. Si presenta in piano trio e dialoga con particolare intesa con il batterista Ulysses Owens Jr. attraverso un repertorio di standard: da Monk a Coltrane, Joey rivisita in modo personale i capisaldi del jazz mostrando una maturità notevole. La sua forza è un tocco leggero sui tasti, una tecnica incredibile e un potente senso dello swing. Si concede anche di giocare liberamente con forme e tempo, facendo brillare i brani di nuova luce.
Un altro momento di intensa bellezza è stato il concerto nella Basilica di San Pietro di Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura insieme a Marco Bardoscia, Michele Rabbia e l’orchestra da Camera di Perugia. “Altissima Luce” è il titolo del progetto che vede Daniele Di Bonaventura alle prese con arrangiamenti originali ispirati al Laudario di Cortona, che accompagnano gli spettatori che gremiscono la splendida Basilica, attraverso atmosfere medioevali e rinascimentali rivisitate in chiave jazz. Il risultato è un concerto straordinario che fa rinascere un repertorio storico in una forma inusitata, non posticcia ma frutto di uno studio accurato.
Per citare invece qualche valido “concertone” all’Arena Santa Giuliana si può parlare dell’all-star trio composto da Brad Mehldau, John Scofield e Mark Guiliana. Potrebbe sembrare una formazione costituita ad hoc, invece i tre si divertono parecchio e sembrano voler dare sfogo alla loro voglia di suonare. Questi divi del jazz si incontrano forse per un concerto che non sarà annoverato tra i loro migliori, né resterà indimenticabile, ma che concede musica di alto livello e grande divertimento per il pubblico. I brani sono tutti di Scofield e Mehldau e a prevalere è il loro lato funky. Il primo si dilunga in assoli eterni ma sempre coinvolgenti, il secondo improvvisa usando solo due dita abbandonando il suo lirismo per un groove travolgente; il primo passa al basso per accompagnare e lasciare l’atmosfera eterea, il secondo gioca con il sintetizzatore e usa pochi accordi minimali per sostenere l’armonia. A completare il quadro c’è il fenomenale Guiliana che stupisce nel brano drum’n’bass More Jungle con un assolo esagerato con cui mette in mostra tutto il suo virtuosismo. Il secondo set è affidato al sassofonista Kamasi Washington che però pur con una larga formazione non riesce ad eguagliare la potenza energetica del trio che lo ha preceduto. La sera successiva si esibisce il duo di Pat Metheny e Ron Carter, due incredibili professionisti del jazz che riescono a portare l’Arena in una dimensione intima. Concerto ineccepibile, se non che Ron Carter forse scivola un po’ sui brani firmati da Pat Metheny. A seguire il concerto del New Quartet di Enrico Rava funestato, purtroppo, dalla pioggia.
Per quanto riguarda i concerti gratuiti appare sempre discutibile la scelta di selezionare un numero ridotto di formazioni che si alternano sui palchi principali durante tutto il festival: questo significa che in un paio di giorni si ascoltano tutti i gruppi e il terzo giorno è già una ripetizione. Molti inoltre sono già passati da Umbria Jazz: quest’anno ad esempio si ritrova il duo di Tuck & Patti, affezionati del festival, che hanno suonato ogni sera al ristorante dell’Arena.
Ultima considerazione, personale e forse fuori tema, è su Perugia e i suoi abitanti. Da anni seguo Umbria Jazz con attenzione e in più occasioni sono rimasta stupita dalla distanza che ho rilevato tra città e festival. I commercianti spesso non sanno nulla dell’evento e non sanno dare informazioni basiche ai turisti su trasporti e luoghi – addirittura non sanno indicare dove si trovi il main stage del festival! – e sembra che molti vivano Umbria Jazz come una scocciatura che una volta all’anno invade la loro città. Da una città che ospita un evento storico, di livello internazionale e di grande stimolo per il turismo mi sarei aspettata un po’ più di coinvolgimento.
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