Foto: Wataru Nishida
Intervista a Shinpei Ruike
Scritto e tradotto dal giapponese da Nico Conversano
Recensione a Unda
Creare musica in profonda relazione con la propria essenza spirituale è da anni il modus vivendi del trombettista Shinpei Ruike. Con la pubblicazione di questo suo ultimo lavoro intitolato Unda, il musicista compie un ulteriore passo in avanti nella sua personale ed originale ricerca sonora che da tempo lo pone ai vertici creativi della scena jazzistica del suo paese. Attraverso questa intervista proviamo a conoscerne i retroscena.
Jazz Convention: Qual è uno dei primi ricordi che hai della musica?
Shinpei Ruike: I primi ricordi legati alla musica risalgono alla banda musicale della mia scuola elementare. La prima volta che ascoltai una loro esibizione, pensai che avrei voluto assolutamente suonare la batteria, ma finii per scegliere la tromba. A casa, mio padre ascoltava sempre musica e, per quello che riesco a ricordare, non si trattava di jazz. A mio padre piaceva la world music: musica etnica proveniente da posti come le isole Okinawa o altri posti esotici.
JC: Come e quando hai scoperto il jazz?
SR: Credo che il mio interesse per il jazz sia nato ai tempi del liceo. Una volta mi capitò di vedere sulla copertina di una rivista di moda una foto di Chet Baker. Sarà stata la posa che aveva assunto in quella foto mentre teneva la tromba, ad ogni modo quell’immagine mi colpì profondamente! Subito dopo mi precipitai in un negozio per acquistare un CD. Uno dei primi dischi che abbia mai acquistato è stato Miles Davis. Anche mio padre aveva molti dischi di jazz, che ovviamente mi faceva ascoltare. Aveva Lp di Miles Davis, Jimmy Smith e Herbie Hancock, ma erano quelli di Miles ad essere i più numerosi.
JC: Tuo padre era artista di ukiyo-e (N.d.T. un genere di stampa artistica giapponese su carta, impressa tramite blocchi di legno precedentemente incisi). Trovi ci siano affinità tra il lavoro artigianale di tuo padre e la tua scelta di diventare un jazzista?
SR: Innanzitutto, potrei iniziare col dire che io stesso sono una delle sue opere! Mio padre si occupava prevalentemente della realizzazione di opere che venivano utilizzate durante un matsuri (N.d.T. termine giapponese per indicare una festa tradizionale, spesso associata a rituali di natura religiosa) che si tiene da tanti anni nella nostra città natale. Da giovane ha vissuto a Tokyo, ma in seguito è ritornato ad Aomori, la sua città natale, dove in seguito sono nato anch’io. Era una persona che realizzava le sue opere prestando grande attenzione alla loro originalità. Essere cresciuto al fianco di mio padre e vederlo realizzare le proprie opere è qualcosa che mi ha ovviamente influenzato. Riuscire a fare delle cose che più ci piacciono la propria occupazione, con il suo carico di gioia e sofferenza, è qualcosa a cui ho sempre aspirato fortemente. Anche oggi che sono un musicista, realizzare qualcosa che rappresenti me stesso, così come faceva lui, resta il mio modello di vita.
JC: Perchè hai scelto la tromba? Cosa ti affascina di più di questo strumento?
SR: La scelta della tromba è avvenuta per puro caso. Come ti dicevo, quando entrai nella banda musicale della mia scuola elementare, volevo suonare la batteria. Il direttore della banda, invece, mi suggerì la tromba. Così nell’attesa di passare alla batteria, iniziai a suonare la tromba. Fin dall’inizio, con mia sorpresa, scoprii di essere bravo e di riuscire a suonare bene. Fu così che decisi che avrei suonato la tromba. La tromba è uno strumento ostico: se non lo suoni tutti i giorni le condizioni d’esecuzione vengono pregiudicate, se invece ti eserciti troppo quelle stesse condizioni finiscono per essere comunque compromesse. Di per sé anche riuscire a tirare fuori il suono dallo strumento richiede tempo, per questo lo ritengo uno strumento piuttosto difficile. Tuttavia, proprio perché ottenuto con fatica, quel suono diventa attraente! Attraverso il proprio corpo è possibile tirare fuori un’ampia gamma di suoni ed anche questo è uno degli aspetti più interessanti dello strumento. Lo penso ancora oggi, quando riesco a tirar fuori un suono interessante e tutto mio.
JC: Puoi citarci qualche trombettista tra quelli giapponesi o appartenenti alla scena internazionale ai quali fai riferimento?
SR: Tra i giapponesi citerei Keiji Matsushima e Issei Igarashi.
JC: Quali sono gli album di jazz che ti hanno influenzato maggiormente?
SR: Steamin’ di Miles Davis.
JC: Dopo delle esperienze con alcuni dei più rappresentativi gruppi giapponesi del jazz odierno come i Dub Sextet, guidati da Naruyoshi Kikuchi, e gli Urb, hai deciso di creare una band tutta tua chiamata “Shinpei Ruike 4 piece” ed hai registrato i tuoi primi due album da leader intitolati “Distorted Grace” (2009) e “Sector B” (2011) nei quali hai iniziato ad intraprendere un percorso più personale. Cosa ti ha condotto a questa scelta? A cosa miri musicalmente come leader di una band?
SR: Fino ad oggi ho collaborato con diverse formazioni e continuo a farlo tuttora. Durante queste esperienze ho iniziato pian piano a stabilire quali fossero le cose che volevo realmente esprimere. Con lo scorrere del tempo, anche i gusti e le tendenze sono cambiate. La parte superficiale cambia in continuazione, tuttavia la sua componente più importante resta inalterata. Penso che questa parte, venga fuori solo grazie alla propria originale espressività. Sono sempre alla ricerca di cose nuove, ma vorrei anche creare una musica che sia necessaria. Non si tratta solo di creare qualcosa di nuovo, ma anche di assimilare qualcosa il cui risultato dia necessariamente vita a qualcosa di sublimato. “Distorted Grace”, il titolo del mio primo album, resta ancora oggi il mio “motto” personale: la bellezza che porta con sé il suo opposto. Gli uomini che vivono sull’equilibrio di questa duplice natura sono attraenti in modo enigmatico.
JC: Il tuo terzo album da leader, “4 A.M.” (2013), è un disco live registrato nel club Velvet Sound di Tokyo per l’etichetta indipendente T5 Jazz. Per esso è stato utilizzata una tecnologia chiamata DSD per registrare, mixare e masterizzare l’album così da migliorare la qualità del suono. Di cosa si tratta?
SR: La scelta del tipo di registrazione è stata dell’etichetta discografica. Il risultato finale credo abbia catturato con successo tutti i colori della band. Registrare con la presenza del pubblico è ovviamente qualcosa di completamente diverso rispetto alla registrazione in studio perché l’energia del pubblico finisce per riflettersi nella performance. La registrazione in DSD, rispetto alla qualità di un normale CD, ha una qualità del suono di gran lunga più tridimensionale.
JC: Negli ultimi album da leader ti sei avvalso della collaborazione del chitarrista Takuya “Tak” Tanaka: Cosa cerchi nel suo suono?
SR: La chitarra è uno strumento che occupa una posizione intermedia, quindi mette insieme sia l’aspetto acustico che quello elettrico. Dato che il suono della nostra band mira proprio ad una combinazione di sonorità elettriche ed acustiche, il suono di una chitarra era indispensabile, così ho pensato che la forza espressiva del chitarrista Takuya Tanaka fosse indispensabile per la band. La sua capacità di suonare generi differenti, il modo con cui fa “cantare” il suo strumento e la sua sensibilità nel creare una vera atmosfera sonora sono straordinarie.
JC: Nelle note di copertina del disco “4 A.M.” hai definito i jazz club delle “scatole”. Puoi spiegarci perchè hai utilizzato questo termine?
SR: A mio avviso, l’utilizzo del termine “scatola” per indicare un luogo in cui si suona è perfettamente adeguato. La scatola è un mero contenitore e il suo valore, o stato, cambia a seconda del suo contenuto. Certo, può anche succedere che, a seconda della scatola utilizzata, sia il modo di percepire il suo contenuto a cambiare. Cogliere l’energia presente in quella “scatola”, assorbirla per poi rilasciarla, rendendo quello stesso spazio qualcosa di speciale, è uno degli obiettivi che ci siamo posti e al quale stiamo lavorando affinché sia introdotto nella nostra musica. È un modo di dire che noi musicisti utilizziamo da tempo e che ha finito per diventare l’immagine che associamo ai locali in cui si fa musica dal vivo. Ci divertiamo a creare con le nostre mani qualcosa che impregni dei nostri colori un oggetto inorganico quale può essere una scatola. Per questo è un modo di modo di dire che mi piace tanto.
JC: Secondo te, quali sono le differenze di approccio tra una performance dal vivo e una in studio di registrazione?
SR: C’è grande differenza tra le due cose. L’energia ricevuta dalla presenza del pubblico è immensa. Di conseguenza, tra una performance con o senza pubblico si crea una discrepanza. Nella registrazione live si può lavorare in modo più preciso, accurato e si ha la possibilità di costruire tutto in maniera pianificata. Nel caso delle performance live, invece, si dà importanza a quello che succede in quel momento. In entrambi i casi, l’importante è che ci si diverta nel suonare. Il processo di vedere cambiare l’atmosfera e il mood di un luogo in compagnia del pubblico è estremamente interessante, ma mi piace anche lavorare in studio e portare la mia musica a compimento passo dopo passo. Mi piacciono entrambe le situazioni.
JC: Dopo alcune performance in duo con il pianista George Nakajima, hai deciso di realizzare un album insieme intitolato “N. 40°” (2014) ed è presente anche nel tuo ultimo lavoro intitolato “Unda” (2016). Come e quando hai conosciuto Nakajima? Quali, tra le sue qualità, sono quelle che ti hanno fatto decidere di “reclutarlo”?
SR: Suonare in duo con Nakajima è molto piacevole. Il suo approccio libero basato sugli standard cambia ad ogni nuova performance. Solitamente, nella performance in duo il pianista tende inevitabilmente a spiccare, ma nel nostro caso, anche in situazioni del genere, viene fuori con forza l’influenza che ciascuno ha sull’altro. In qualsiasi situazione la musica che creiamo è sempre il prodotto di entrambi. Il mood che si percepisce nella performance in duo è molto diverso da quello presente in “Unda”, registrato in quintetto: Nakajima ha una maggiore libertà rispetto a quando suona il piano elettrico. Il suo approccio fortemente rispettoso degli standard è molto stimolante e questo fa di lui una presenza indispensabile per la band.
JC: In “N. 40°”, a fare da spartiacque tra un brano e l’altro, ci sono alcuni frammenti di improvvisazioni in solo di pianoforte o tromba. Come è nata l’idea di questi piccoli frammenti musicali?
SR: Il motivo per cui ho inserito delle brevi improvvisazioni tra uno standard e l’altro è che volevo esprimermi con qualcosa che non creasse alcuna distanza tra i brani. Credo che si debba sempre cercare un dialogo, esprimendosi attraverso il proprio linguaggio, con la persona con la quale si suona. Questa intenzione non dovrebbe mai essere ignorata sia che si tratti di composizioni scritte, sia che si tratti di musica nata in maniera estemporanea. Se sono riuscito a trasmettere questa idea, ne sono felice.
JC: Parliamo di altre tue collaborazioni. Una delle più interessanti è quella con la Landscape Jazz Orchestra. Puoi parlarcene?
SR: Il progetto “Landscape Jazz Orchestra” non è più in attività. L’idea era quella di dar vita, attraverso una performance di musica estemporanea, ad un dipinto eseguito dal vivo. Era il pittore a dare concretezza a qualcosa che sostanza non ha, la musica. Provavamo a dare una veste nuova alla performance live attraverso la realizzazione di un dipinto che veniva completato di pari passo con l’esecuzione strumentale.
JC: Tra le tue collaborazioni più inusuali c’è quella con l’industria dell’animazione per “Sakamichi no Apollon”, una serie animata trasmessa nel 2007 con una colonna sonora jazz. Cosa puoi raccontarci di questa esperienza?
SR: L’industria dell’animazione giapponese è molto prospera e dinamica. Penso che “Sakamichi no Apollon”, tra tutti i lavori di animazione prodotti, sia uno dei più speciali. Per quello che riguarda le sequenze nelle quali i protagonisti stanno suonando, ho praticamente eseguito le parti musicali della tromba che sono poi state sovrapposte all’animazione. È un prodotto che non si era mai visto precedentemente e che ha saputo portare il vero jazz nell’animazione. Persino la posa e l’angolo di postura del trombettista animato sono perfettamente uguali alle mie.
JC: Cosa pensi quando improvvisi? I tuoi assolo sono costruiti seguendo una struttura architettonica o ti lasci andare all’istinto?
SR: Penso ci siano entrambi gli approcci. Riguardo a quanto in percentuale, l’istintività, la partitura o le regole musicali influenzino la mia musica, è sicuramente la prima a prevalere ed è assolutamente la mia preferita. È questo il tipo di musicista che voglio essere.
JC: Qual’è la tua opinione a proposito dell’odierna situazione del jazz in Giappone? Che tipo di opportunità ci sono per i jazzisti di esibirsi e sperimentare nuove direzioni musicali?
SR: Ho l’impressione che il numero di giovani che ascoltano jazz si stia riducendo, di contro, però, spuntano sempre nuovi ed interessanti musicisti che suonano jazz. Di certo il jazz non scomparirà, ma se la situazione migliorasse un pò, ne sarei più contento. Ci sono molte occasioni di suonare musica sperimentale e Tokyo è una città in cui c’è una gran numero di musicisti folli e meravigliosi.
JC: Secondo te, quali sono le caratteristiche che distinguono il jazz giapponese dalle altre scene jazzistiche internazionali?
SR: Penso che i jazzisti giapponesi attivi negli anni ’60 avevano un suono in cui era maggiormente presente “un’identità nipponica”. Quelli tra loro attivi ancora oggi mantengono una loro originalità perché si sono costruiti una proprio stile assorbendo anche elementi del jazz tradizionale. Anch’io mi impegno a cercare un suono dal quale possa venire fuori quella stessa identità giapponese.
Links di riferimento:
ruike.daa.jp – sito personale dell’artista
www.youtube.com/watch?v=ounHSQvu9Yc – estratto della serie “Sakamichi no Apollon”