Foto: Salvatore Tubo – per gentile concessione di Fabio Buonarota dal suo profilo facebook
Fabio Buonarota: la mia tromba suona il blues
Trombettista, classe 1976, proveniente da Busto Arsizio. La prima volta che ho ascoltato Fabio Buonarota, in un concerto della Vik & The Doctors of Jive guidati da Vince Tempera, sono rimasto colpito dal suono aggressivo e potente della sua tromba. L’incontro al Caffé Doria, dove il trombettista ha suonato con il Circus Jazz Quartet, è stata l’occasione di scambiare due chiacchiere con lui e trascriverle peri lettori di Jazz Convention.
Jazz Convention: Quale stato l’inizio del tuo percorso di musicista?
Fabio Buonarota: Ho iniziato da bimbo nella banda del paese: era indubbiamente l’accesso più immediato alla musica. Con il passare degli anni ho iniziato ad appassionarmi ai vari generi di musica, finché non ho scoperto il jazz verso i sedici anni. Mi sono iscritto al Conservatorio Cantelli di Novara e mi sono diplomato in tromba classica con il Maestro Colliard. L’avvicinamento alla pratica del jazz è avvenuto di pari passo: ho seguito dei corsi, ho cercato di carpire i segreti del jazz da altri musicisti.
JC: Come molti trombettisti, dalla classica sei passato al jazz… Cosa ti ha avvicinato al jazz?
FB: Il primo disco di jazz che ho ascoltato è stato un disco di Dizzy Gillespie con la sua big band e mi ha profondamente sconvolto. Ero lì che ascoltavo il disco e mi chiedevo: «Ma, davvero, la tromba può fare queste cose qua?!?!» Mi sono innamorato di questo ritmo incalzante e del fraseggio di Gillespie. Da lì è partito tutto. Poi ho fatto il percorso classico perché era l’unico percorso riconosciuto, anche i miei genitori insistevano, a ragione, che arrivassi ad avere un titolo di studio. Aver fatto quel percorso mi è servito a controllare lo strumento e, parallelamente, continuavo ad ascoltare e scoprire nuovi dischi di jazz e a provare a suonarlo. Alla fine posso dire di ascoltare e studiare il jazz da parecchio e di “suonarlo con coscienza” da sei o sette anni dopo aver incontrato un maestro che mi ha indicato la strada per muovere i miei primi passi. Il jazz è un mondo talmente vasto: c’è chi ha la fortuna di captare delle sensazioni e riprodurle, c’è invece chi è un po’ più duro e ha bisognoso di un insegnante che lo incanali nella giusta direzione. Il sassofonista Michele Bozza è stato il maestro che mi ha davvero cambiato la vita musicale.
JC: Oltre a Dizzy Gillespie, che è uno dei padri del bebop e del jazz moderno, quali altri trombettisti ti hanno influenzato?
FB: Direi sicuramente Chet Baker… lo adoro. Ma poi amo anche Clark Terry, Clifford Brown, Louis Armstrong, Tom Harrell… insomma tutti i musicisti che ci hanno lasciato della grande musica.
JC: Ti ho visto suonare con diverse formazioni. Ho avuto modo di apprezzare particolarmente il Blue Note Sound che ricreate con il Circus Jazz Quartet, un suono che richiama a mio avviso i Jazz Messengers di Art Blakey…
FB: Si, in effetti noi tutti amiamo quei dischi, siamo attratti dai musicisti che ci suonano e che hanno tanto segnato la storia del jazz. Il quartetto è formato da Walter Calafiore ai sassofoni, Tommaso Bradascio alla batteria e Max Tempia all’organo Hammond, oltre a me alla tromba. Ovviamente trovare una propria identità stilistica è molto difficile: quando si inizia, si prendono come riferimento i grandi musicisti della storia. Una delle maniere migliori per apprendere il jazz è proprio quella di trascrivere gli assolo dei grandi interpreti che per forza di cose finisce per influenzare il linguaggio di ogni giovane musicista. Con il tempo, naturalmente, uno cerca di distillare un proprio suono, un proprio stile: è la cosa più difficile da raggiungere, si lavora tutta la vita per ottenerlo.
JC: Di recente, mi hai detto di aver suonato con Mario Biondi…
FB: Collaboro dal 2011 con Mario Biondi. In quell’anno ho fatto la prima tournée con lui e, poi, ho inciso il disco Duet. Dopo di che, per un periodo, abbiamo collaborato in modo più saltuario. Due anni fa, ha cambiato la sua band e ha pensato di inserirmi in questa nuova formazione: per cui, sono due anni che sono presente in modo stabile con cui. Giusto qualche giorno fa, è uscito il singolo del disco che abbiamo registrato quest’estate e che uscirà, penso, a metà novembre.
JC: In questo periodo storico, ma forse è sempre successo, ho l’impressione che il jazzista, per sbarcare il lunario, debba lavorare nel mondo del pop e della canzone… però, alla fin fine, si tratta pur sempre di esperienze utili al bagaglio espressivo…
FB: Si, c’è bisogno di barcamenarsi in molte direzioni, ma questo, come tu dicevi bene, ti fa fare esperienze e arricchisce anche la musica che suoni. Funk, r’n’b, latin, musica kletzmer, musica classica le ritrovi poi, in qualche modo, nelle tue improvvisazioni e nella tua pronuncia del jazz e, in fondo, è anche giusto che sia così perché il jazz è un linguaggio in continua evoluzione e sempre aperto alla contaminazione con le altre forme musicali. Nelle esperienze e nelle collaborazioni, ritengo di essere stato molto fortunato: penso ad esempio al percorso che ho fatto insieme alla Monday Jazz Orchestra, grazie alla quale ho avuto la possibilità di suonare e incidere con musicisti come Bob Mintzer e Randy Brecker o come i “nostrani” Gianni Cazzola e Sante Palumbo.
JC: Mi dicevi che siete in procinto di entrare in sala di registrazione con i Circus Jazz Quartet…
FB: Si, presto registreremo con il quartetto, probabilmente entro la fine dell’anno. Faremo un lavoro con brani originali. Mentre all’inizio del prossimo anno, dovrei registrare il primo disco a mio nome: un caro amico, vale a dire Mario Caccia della Abeat, mi ha più volte detto che secondo lui ero pronto per misurarmi con questa prova. Io, ovviamente, non mi sento pronto ma mi sono detto che poteva essere giusto fare la fotografia di questo momento musicale. Ho scelto tre validi musicisti e amici per questo lavoro: Gianni Cazzola, storico batterista del jazz italiano; Aldo Mella e Antonio Zambrini anche loro due grandissimi personaggi del jazz italiano,rispettivamente al contrabbasso e al pianoforte. Suoneremo alcune rivisitazioni di standard e brani italiani, un brano di Stefano Cerri, un brano di Aldo Mella, un brano mio e uno di Antonio Zambrini. Seguiremo la tradizione, ma ci indirizzeremo su una visione più moderna del mainstream pur “giocando” su tempi lenti e dipingendo, in qualche modo, delle atmosfere romantiche: a me piace molto suonare le ballad, in modo morbido, con il flicorno. Un ambiente molto diverso da quello che hai ascoltato nei vari concerti in cui siamo incontrati…
JC: In qualche modo, in mezzo a tutti gli impegni e le collaborazioni, sei sempre alla ricerca del tuo linguaggio, di qualcosa di nuovo da dire…
FB: Assolutamente si. Diciamo che sto ancora cercando il mio linguaggio. Ovviamente, quando mi confronto con gli altri trombettisti e, in generale, con gli altri musicisti siamo tutti insoddisfatti, mai contenti di quello che diciamo, siamo tutti alla ricerca di qualcosa di nuovo da dire e con una nuova estetica. Lo studio fa parte del jazz: cercare di evolversi, voler raccontare la contemporaneità.
JC: Una delle tue collaborazioni attive in questo momento è quella con il cantautore Fabrizio Consoli. Qual è il suo approccio alla canzone e, di conseguenza, qual è il ruolo che svolgi nei suoi concerti?
FB: Il suo è un cantautorato molto influenzato dall’America, dall’America Latina a quella del nord. Melodie jazz e ritmiche latine si incrociano per sostenere dei testi, in italiano, molto profondi. Ultimamente siamo stati spesso in Germania con lui, dove è molto apprezzato.