The Great Summit, la ristampa di un disco problematico

Foto: la copertina del disco









The Great Summit, la ristampa di un disco problematico


Jazz Images è la collana nata come tributo al fotografo Jean-Pierre Leloir: le nuove edizioni di dischi classici che la compongono utilizzano infatti i suoi magnifici scatti in bianco e nero per le copertine rinnovate. All’interno di questa serie, viene ripubblicato in vinile The Great Summit, il primo dei due album originali usciti per la Roulette, vale a dire Together For The First Time (noto a posteriori anche come The Great Summit) e il successivo The Great Reunion. I dischi – incisi entrambi tra il 3 e il 4 aprile 1961 presso l’RCA Victor’s Studio One di New York sotto la guida del produttore Bob Thiele (di lì a poco deus ex machina della Impulse!) – erano già apparsi in formato CD nel 2001, per la Blue Note Records.


Doveva essere l’incontro del secolo (almeno nella storia afroamericana), ma resta un disco problematico: all’epoca deluse le attese: riascoltato oggi suona come un buon lavoro jazzistico anche se di ardua collocazione, perché non sembra un album armstronghiano e nemmeno un opus ellingtoniano.


La vicenda è nota: agli inizi degli anni Sessanta, quando il jazz comincia avere credibilità assoluta sul piano artistico-culturale, sono in molti, fra i grandi maestri (anche giovani) a confrontarsi su disco (dal vivo succede da sempre in jam session a cui tutti, sul momento, danno scarso valore anche in mancanza di supporti tecnologici per immortalarle), come ad esempio Sonny Rollins con Coleman Hawkins, Sarah Vaughan con Quincy Jones, Frank Sinatra con Tom Jobim. In particolare, accade a Duke Ellington per tre LP memorabili: uno in cui inizia la propria big band a quella di Count Basie, un altro dove duetta con John Coltrane e un altro ancora in piano jazz trio dove la ritmica è Charlie Mingus e Max Roach.


Ci sarebbe, per il Duca, anche un quarto album, questo appunto, condiviso fra lui e il grandissimo Louis Armstrong. E va appunto usato il condizionale perché l’incontro fra i due massimi jazzisti di ogni tempo non porta al capolavoro assoluto. Non è una questione di incompatibilità stilistica, anche perché i due, per motivi anagrafici, risultano i più affini, benché con iter stilistici assai lontani l’uno dall’altro. Resta semmai un problema di scelte errate sul piano realizzativo: la soluzione più logica sulla carta dovrebbe risultare Armstrong alla voce e alla tromba con Ellington che dirige la propria big band (all’epoca tornata a far scintille, anche con un ospite moderno come Dizzy Gillespie). Ma incredibilmente viene scelto il combo di Louis con un paio di buoni solisti (Trummy Young e Barney Bigard), Duke al pianoforte e una ritmica scadente (Mort Herbert e Danny Barcelona).


Come in parte accennato, i due si conoscono sin dagli anni Venti e in diverse occasioni si esibiscono insieme, senza mai progettare un rendez-vous discografico né autentici concerti: e in tal senso sono rare e amatoriali le registrazioni dei loro incontri. The Great Summit è invece il frutto maturato verosimilmente durante la collaborazione a Parigi nel 1960 per il film Paris Blues, dove Louis canta e suona mentre Duke elabora il soundtrack. Ellington infatti risulta il compositore della colonna sonora con Armstrong che nella pellicola recita e propone in alcuni songs dalle partiture ellingtoniane, e con Leloir che sul set li fotografa assieme (la copertina della nuova edizione è uno dei suoi famosi scatti).


Tornando al disco, si alternano solo grandi classici (e gemme rare) del songbook del Duca, nell’ordine Duke’s Place, I’m Just A Lucky So And So, Cottontail, Mood Indigo, Do Nothin’ Till You Hear From Me, sul lato A, The Beautiful American, Black And Tan Fantasy, Drop Me Off In Harlem, The Mooche, In A Mellow Tone, Do Nothin’ Till You Hear From Me, sul lato B. Purtroppo il disco non ha nemmeno un guizzo vincente: gli assolo di Louis sono lindi, netti, vigorosi, ma sembrano quasi mancare di profondità, come se avesse imparato in fretta la lezione, con poco spirito e molta superficialità. La questione è che la poetica del Duca è molto lontano dall’approccio di Satchmo alla musica: lo small combo è penalizzante rispetto alla big band e quindi il sound d’insieme resta un ibrido, ragion per cui non si può valutare questo disco né come armstronghiano né quale ellingtoniano. Ma alla fine si tratta pur sempre di un ibrido di buon jazz mainstream.