Enten Eller – Tiresia

Enten Eller - Tiresia

Autoproduzione – 2016



Maurizio Brunod: chitarra elettrica, chitarra acustica, live sampling

Alberto Mandarini: tromba, flicorno, live sampling

Giovanni Maier: contrabbasso

Massimo Barbiero: batteria, percussioni

Emanuele Parrini: violino in Aylan






Gli Enten Eller; nati circa un trentennio fa, con un organico diverso e costanti varianti e aggiunte, sono un gruppo emblematico del jazz italiano di questi ultimi decenni: nella “storia” degli Enten Eller leggiamo in filigrana il racconto della difficoltà delle musiche improvvisate di matrice afroamericana a trovare uno spazio istituzionale, un riconoscimento di valore e una visibilità congrui. Quartetto d’eccellenze rimasto unito grazie alla passione, perseveranza e cocciutaggine dei fondatori Barbiero e Brunod, poi raggiunti da Maier e Mandarini, che da vent’anni circa rappresentano l’altra metà della luna. Disco autoprodotto, dopo la lunga e proficua collaborazione con la Splasc(h) di Peppo Spagnoli, quale scelta di campo a voler indicare/rivendicare la propria raggiunta maggior identità e libertà. Se il nuovo assetto produttivo aveva già dato frutti positivi, come nei precedenti album in solo, qui segna una distanza e una diversità sensibili rispetto ad altre prove quali Ecuba (Pietas è un live). Troviamo qui alcune differenze fondamentali con altre recenti incisioni: l’assenza del bravissimo, a mio avviso insostituibile, Javier Girotto, la lunghezza dei brani di berniana memoria, una grande freschezza, libertà e consonanza d’idee e intenti musicali in grande evidenza, una maggior ricchezza e varietà timbrica provenienti dall’uso della live electronics e delle percussioni di Barbiero.


Date le premesse e i musicisti impegnati, non può stupire più di tanto l’interplay magistrale e altissimo, ma questa e altre caratteristiche appaiono qui in maggiore evidenza, come fossero meglio messe a fuoco, quasi svelate. La musica si prende qui diversi rischi in più, e questa nuova serenità e freschezza hanno pochi riscontri nel recente jazz nostrano, d’altro canto permane un desiderio di controllo dell’assetto formale e dello sviluppo dei brani fin troppo marcato. Forse è questa la prova di una formazione che ha appena iniziato una fase di rinnovamento profondo e “radicale” non ancora del tutto compiuto. O forse no. L’attenzione costante alla melodia, il gusto per il canto e le linee ariose, Mandarini è maestro di lirismo tra Davis e Little, sono antica eredità su cui fondare la musica a venire. I brani, tutti a nome collettivo, sono chiara indicazione della predominanza dell’improvvisazione e dell’importanza contributo di ogni singolo al collettivo. Si ascolta qui una musica che pare strutturarsi nel suo farsi, lasciando così ampio spazio alle voci personali, una musica che non teme lungaggini e ripetizioni, né i momenti di stanca o le cadute di concentrazione e neppure le aperture solistiche quand’anche corpose. È infine una musica che si sviluppa e acquista senso non per repentini contrasti ma nel suo fluire e trascolorare, nel suo spegnersi e riaccendersi delicatamente. Tanti i momenti memorabili, quanto inutile qui elencarli. Nel conclusivo Aylan il bravissimo Emanuele Parrini, seppur talvolta sfasato rispetto alle coordinate stilistiche del quartetto, aggiunge una voce di grande rilievo e fascinazione a una formazione magistrale che raggiunge qui vertici di creatività e interplay assai rari.