Okeh/Sony Records – 88985364092 – 2016
Dhafer Youssef: oud, voce
Aaron Parks: pianoforte
Ben Williams: contrabbasso
Mark Guiliana: batteria
Ambrose Akinmusire: tromba
Diwan (“raccolta di poemi” ma anche “cerimoniale in musiche e danze”) è termine alquanto calzante nel descrivere la successione narrativa lungo un album del Nostro, che non rinuncia alla progressione tra stanze solistiche a private e più dinamici passaggi in collettivo, sulle cui logiche estetiche si rimodella la band di turno.
A seguire dunque il contrastato programma del precedente Birds Requiem, forte di una composita falange elettroacustica (che annoverava nordici cavalli di razza quali Molvaer e Aarset nonché sorprendenti solisti medio-orientali), nella line-up di Diwan of Beauty and Odd si avvicenda un ensemble del tutto nuovo, sidemen di differente prestigio ma non certo inferiore caratura, certamente assai più vicini a logiche da scena jazz (nel particolare caso la East Coast contemporanea) a segnare il rientro della poetica youssefiana entro le maglie creative e le pulsazioni vitali metropolitane.
Il lavoro è graziato dall’ulteriore eclettismo di Ambrose Akinmusire ed Aaron Parks (piuttosto freschi di cooperazioni orientaliste entro le band di Jen Shyu ed Elif Çaglar, giusto per ampliare le visuali) e la definita personalità ritmica di Mark Guiliana e Ben Williams, confermando le ormai abituali scelte estetiche di un solista che dalla nativa Tunisia ha investito su scambi prevalenti sulla scena europea, non disconoscendo la cultura originaria.
Dunque, ripresa degli abituali, tematici interludi in solo di tratto onirico (fluidi mélanges tra le modalità arabiche e reminiscenze dell’antico patrimonio liutistico europeo) ad incorniciare passaggi di più spiccato mordente, nel tal caso imbastito dal drumming trascinante di un Mark Guiliana in piena forma, in cui si concede spazio alle non dominanti (circoscritte a due tracks) ma funzionali sortite della brunita tromba di Akinmusire, di cui non sono rari i testa-a-testa con il cantato in falsetto, insieme arioso e drammatico, di Dhafer, esitando ben più articolato il brillante interventismo della tastiera di Parks; cosicché, se questi è animatore importante, insieme alle sferzanti corde di Youssef, dei passaggi di maggior colore e catarsi dell’album, tali 17th Flyways o Cheerful Meshuggah, è con buona probabilità da ricercarsi nelle sottigliezze dei duo piano-oud, di grande sensibilità, i momenti più suggestivi e personali dell’album.
Permanendo di differente personalità rispetto ad un Anouar Brahem (di più netto rigorismo formale) o un Rabih Abou-Khalil (maggiormente sperimentato nei rovesciamenti d’ensemble e più segnato da sulfureo humour), Dhafer Youssef mantiene operosamente in vita un sensibile ponte stilistico, pragmaticamente piuttosto fedele (o almeno così sembra ingegnarsi) al proprio aforisma “Il Groove è il senso della Vita!”; nel suo primo album (almeno a quanto è dato di ricordare) in cui s’ avvale di una all-american band, si attinge ad un rinnovato sound in cui un jazz “canonico” ma comunque aggiornato e di fresca qualità non si sacrifica, spersonalizzandosi,a logiche da fusion fatua e di blanda personalità, esaltando anzi in più occasioni i talenti assai concreti degli ispirati partecipanti, entro un cimento dagli esiti più volte positivi, entro un lavoro collaborativo, articolata sintesi di sottigliezza creativa e fruibilità.