Milvus – 2016
Hugo Selles: pianoforte, piano strings, tastiere, synth, organo Hammond, voce, arrangiamento archi
Quico Duret: chitarra elettrica, e-bow guitar, effetti
Morten Skett: batteria, percussioni
India Hool: voce/ hulusi
Carlos Barragán: chitarra elettrica, e-bow guitar, effetti
Nikolai Petersen: vibrafono, triangolo
Katerina Anagnostidou: celesta
Joaquin Páll Palomares: primo violino
Khalida De Ritter: secondo violino
Johanna Baarlink: viola
Adriana Isaku: violoncello, voce
Jan Irlind: balalaika
«The United Colors of Nu-Pop» potremmo considerare il parterre di copertina, che espone un mix etnico piuttosto promettente, non fosse che ben poco di quanto immaginabile (almeno in termini di passaporto e interscambio) viene espresso dalla musicalità, sperimentata ma in fondo piuttosto autocratica, dell’autore: pianista e compositore di nascita e formazione ispaniche, migrato alla volta della terra di Amleto e di Andersen, Hugo Selles vi ha assemblato un giovanissimo ensemble che oltre a numerosi connazionali comporta partecipanti d’eterogenea provenienza, ma nella sostanza disciplinati nel contribuire ai disegni del leader.
Ora, non possiamo considerare marginali le penisole ispanica e danese, o almeno non ignare delle più nuovi correnti, e se c’è del Pop in Danimarca (come certamente vi è) non trattiamo verosimilmente del più convincente biglietto da visita che potremmo attenderci, considerata la vitalità della locale scena (che in verità può vantare ben pochi prodotti da esportazione, se vogliamo tralasciare il fenomeno pop di Aqua o, in àmbito jazz, una manciata di nomi forti, da Palle Mikkelborg a John Tchicai a Marilyn Mazur, ma tanto può bastare).
La giovin dozzina trova un corrispettivo nelle dodici tracce dell’album, che nel corso del suo programma s’ingegna in effetti a cambiar pelle, ma vana esiterà l’attesa di un qualche passaggio di svolta o di più forte caratterizzazione dei materiali, di blanda drammaticità e pari personalità, molto debitorie nei confronti del minimalismo e del fruibile classicismo di consumo, orbitanti più che altro lungo orbite di stilemi da colonna sonora, che richiameranno una congerie estesa di nomi, da Howard Shore a René Aubry, ma non sembra nemmeno il caso di approfondire analogie e richiami : apparentemente motivata a conquistarsi un profilo entro il Pop contemporaneo, la personalità dell’animatore dell’operazione attinge alla sufficienza, ma diremmo unicamente nel tonificare giusto un po’ i modelli suddetti e, tentando d’installarsi entro un mercato di fatto poco esigente ed una (correlabile) audience verosimilmente non pletorica, segna tutt’al più un passaggio partecipativo che nel suo complesso vanta poche chances di riproporsi alla memoria dell’ascolto.