Dodicilune Dischi – Ed 362 – 2017
Michel Godard: serpentone, tuba, basso elettrico
Ihab Radwan: oud, voce
Le linee chiare ed ondulanti della scrittura medio-orientale (e nord-africana) non sono probabilmente da annoverare tra le più precoci influenze incorporate dal jazz meticcio, ma vi stanno acquisendo cittadinanza con argomenti sempre più solidi e diversificati.
È il momento partecipativo dell’egiziano maestro di oud Ihab Radwan, qui alla prima esperienza discografica da titolare dopo un cursus investito tra l’adottiva Francia e Paesi della propria originaria area culturale, che incontra un partner d’esperienza nel talentuoso Michel Godard, già russante voce d’ottone delle formazioni del libanese Abou-Khalil, ma anche indipendente e curioso esploratore entro un ventaglio di spregiudicata ampiezza, dal canto gregoriano a peculiari forme fusion.
I materiali , pescanti in forma piuttosto letterale dalla più sensibile pelle della vulgata arabica, esitano quali risultante di un’equa sinergia, e quanti avessero confidenza con esperienze e partecipazioni di Godard vi ritroveranno soluzioni e motivi già apprezzati, ulteriormente conformati dall’apporto stilistico ed autoriale di Radwan, ispirato scrittore connotato da solido languore lirico.
Attacco di grande sensibilità Su l’onda d’amore in cui Godard s’ingegna per come gli è ormai proprio a conferire “cantabilità” jazz-blues al pachidermico serpentone, lungo un canto affidato alla vibrante fermezza delle corde del millenario oud, condividendo il carattere di altri consimili momenti quali Tenderness, Dahab, Love at first sight, la più fosca Serbia o il soffuso epilogo de A Trace of Grace.
Non se ne discostano radicalmente per carattere gli altri passaggi, caratterizzati da maggior impulsività ritmica come Il Goloso o In The Grotte o arguzie dialoganti ne À la folie, lungo le quali le relativamente assortite personalità in gioco si mantengono piuttosto fedeli ad un soundscape coerente, corrusco e gemmante in motivi di sobria eleganza, e le cui tentazioni d’eccentricità appaiono sapientemente temperate da concentrata cantabilità, al servizio di una sintesi incruenta e non perigliosa tra “passato remoto e futuro anteriore”, che a quest’ultimo tende con maggior affinità, nei sensi di un’ornamentazione sobria e di un patrimonio linguistico profondo ma scevro da protagonismi, pur se d’aspirazioni universali.
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