Foto: Fabio Ciminiera
L’onnivora voracità musicale di Enrico Merlin
Un omaggio al Miles elettrico (Molester sMiles, recensito per Jazz Convention da Gianni Montano), una rivisitazionem con il duo chitarristico formato insieme a Valerio Scrignoli, del repertorio degli Area, uscita recentemente per Musicamorfosi e uno stralunato omaggio a Frank Sinatra, visto come un alieno giunto sulla terra a portare il verbo, realizzato in compagnia dell’eclettico batterista Francesco Cusa. Enrico Merlin continua ad agitarsi, instancabile, nel panorama, più stagnante di quanto sembri, della musica improvvisata italiana. I suoi interessi, le sue curiosità sono molteplici, probabilmente insaziabili. Ha pubblicato studi fondamentali su Miles Davis e un voluminosissimo testo sui “1000 dischi per un secolo. 1900- 2000” che ha avuto forse meno attenzione di quanto meritava. Enrico non si dà per vinto. Quotidianamente pubblica su You Tube delle “pillole” di cultura musicale, ognuna dedicata ad un capitolo della sua opera. Enrico Merlin è vorace: ascolta ogni musica. Nel suo libro parla dei Beatles come di Arnold Schoenberg. di Bobby McFerrin come di Charlie Parker O Luigi Nono. Con l’attore Andrea Brunello sta proponendo n una sorta di reading letterario musicale (Jazz Teatrale) dedicato a vari autori (Lo Shakespeare de la Tempesta, Anton Cechov). Fra essi Rryszard Kapuscinski, il grande reporter polacco autore di libri tanto belli quanto fondamentali per capire la realtà dei nostri tempi tanto complessi.
È proprio dall’autore di In viaggio con Erodoto che ho voluto fa iniziare questa conversazione. Ho proposto a Enrico una frase tratta da Lapidarium, una sorta di taccuino intimo, in cui Kapuscinski ha riversato riflessioni e appunti sparsi sulle sue esperienze intellettuali e umane.
“La caratteristica dell’arte contemporanea è quella di non avere un vero e proprio centro. Nessuno accetta più di trovarsi emarginato, allontanato, subordinato. Il centro, oggi, non lo vuole più nessuno. Se centri devono esservi, che siano molti e indipendenti l’uno dall’altro.”
«Quello che mi colpisce – risponde Enrico – è che Kapuscinski, abbia scritto questa frase nel 1994, agli albori di Internet, quando il fenomeno da lui descritto con tanta lucidità non era ancora tanto vasto ed evidente. Internet ha rimescolato ulteriormente le carte. Ma anche nel 1994 si potevano cogliere i segni del policentrismo, del relativismo culturale oggi dominate. Non ci sono più centri, è vero, ed è anche un bene che sia così. Magari Kapuscinski, intellettuale “borghese” legato a un ideale “classico di cultura”, leggeva in maniera negativa questo fenomeno. Non necessariamente si deve essere d’accordo con i grandi. K ha proposto un problema vero, reale. Ci sono vari livelli possibili di risposta. Il primo che mi viene in mente è quello della dottrina Sufi, secondo la quale ognuno è una sorta di grande antenna che elabora i suoni e l e vibrazioni del mondo e li ritrasmette. Penso a Robert Fripp e a Keith Jarrett, entrambi seguaci di questa credenza. Due tipi diversissimi, l’uno, Fripp, compassato e austero, che tende a non occupare la scena, atteggiato in una sorta di posizione Alexander. L’altro, rumoroso mentre suona, che mugola e canticchia, che sembra voler violentare il pianoforte. Entrambi, nella loro totale diversità hanno mostrato strade e aperto prospettive. Ma, senza scomodare dottrine religiose ed esoteriche, non è possibile negare che, in un’epoca di grandi possibilità d’ascolto e di conoscenza delle altre culture le nostre antenne captano un numero di segnali molto più alto di quelli che poteva cogliere un musicista di un’epoca precedente a quella della diffusione dei dischi. Oggi le suggestioni sonore sono praticamente inesauribili. Non è possibile non tenerne conto. Le musiche più popolari del novecento hanno migrato fra i continenti: il jazz, il tango, il samba e tutta la musica brasiliana, il fado sono musiche di viaggio e di migrazione. Tutto si mescola e cambia continuamente. Come si fa ad avere un solo centro?
Questo porta alla conseguenza che non esistono più modelli dati, regole alle quali attenersi. Per completare la citazione di Kapuscinski, L’arte di oggi non ama le etichette, la ghettizzazione, la divisIone in specie, generi e stili. Ama i contorni sfumati, le toppe, le giunte, le sovrapposizioni, vuole che tutto sia informe e collocato fra…
«Sì, è così e così deve essere. Basta con gli steccati rigidi, basta con le catalogazioni de jazz. Miles e Ornette sostenevano queste cose già decenni fa. Duke Ellington parlò del jazz, come di quella musica sciatta che si suonava negli anni Venti. Miles parlava non tanto di jazz, quanto di social music. Eppure, a tutt’oggi c’è chi pensa di possedere le chiavi per capire quale sia l’essenza del jazz. Come se questa musica non si fosse evoluta continuamente, come se non avesse messo in discussione se stessa. In nome di questi principi si dovrebbe censurare lo stesso be-bop che buttò nell’Hudson le vecchie convenzioni jazzistiche. A dire il vero questa discussione sull’essenza della nostra musica non è nemmeno particolarmente interessante. Dovrebbe essere stantia, superata. Eppure continua, sulle riviste, sui social. Nel 1968 Muddy Waters scandalizzò i puristi con il suo Electric Mud, nel quale suonava quel Pete Cosey che avrebbe poi affiancato Miles in tante incisioni storiche. Possibile che a cinquant’anni di distanza non si voglia ancora capire che questa musica ha un bisogno congenito, intimo direi di rimettersi comunque in discussione? Il principio ispiratore deve essere la creatività, non la fedeltà. Altrimenti si rischia di scambiare per fenomeno una brava cantante capace di cantare in scat i soli di Trane e di altri grandi. Jon Hendricks praticava questo stile già sessant’anni fa, adattando fra l’altro a quelle sequenze dei testi divertentissimi e stralunati. Bobby McFerrin ha fatto sperimentazioni incredibili con la voce. Possibile che un grande talento debba finire al servizio di un’idea preconcetta? Che non si capisca che inseguire i grandi sul loro terreno è perfettamente inutile?
Io non rifiuto per niente la tradizione. È una continua fonte d’ispirazione e d’insegnamenti. Non storco il naso davanti a qualcuno che ama Tom Harrell o qualche altro grande musicista mainstream. Sarebbe tempo di finirla con gli schieramenti tribali, con le rivendicazioni di primogenitura del jazz. Oltre tutto queste discussione, queste battaglie verbali sono veramente estenuanti. Troppo seriose. Uccidono a volte il gusto di ascoltare la musica. A volte penso che ci prendiamo troppo sul serio. Voi che scrivete, volendo a tutti i costi adattare alla musica significati cui l’autore nemmeno pensa, noi musicisti che per farci capire diventiamo prolissi e rischiamo l’effetto spoiler. È dagli anni Settanta che ci prendiamo tutti troppo sul serio. In ogni caso penso che la musica, una volta eseguita, su disco o in pubblico, diventi anche proprietà di chi lo ascolta, che è libero di interpretarla come vuole: di commuoversi o di arrabbiarsi, di trovarci significati nascosti anche all’autore. L’importante non arruolarsi in una crociata.»
Come vedi la situazione attuale del jazz italiano di oggi?
«Non è una risposta semplice. Ci sono tantissimi musicisti bravi e capaci, che raccontano storie nuove. Francesco Cusa, Massimiliano Milesi, Tino Tracanna, Giovanni Falzone, Achille Succi, Daniele D’Agaro, Danilo Gallo, solo per citarne alcuni. Per non parlare di quello che è il mio maestro e il mio idolo, Franco D’Andrea. Parlo solo di musicisti del Nord, ma solo per semplificare. Anche da Roma in poi s’incontrano proposte nuove. Il dato negativo è che, tuttavia, molti di questi musicisti hanno poca visibilità nei vari festival. Quello delle rassegne è un circuito particolare in cui quasi tutti gli organizzatori sono molto, troppo, prudenti, accettando continuamente compromessi con i vari assessori.»
Non trovi che però anche il pubblico sia in qualche maniera standardizzato? Alla fine i concerti dei soliti nomi sono spesso affollatissimi, mentre le proposte nuove, originali risuonano in sale semivuote. C’è pigrizia mentale anche da parte del pubblico?
«La risposta è duplice. Da una parte c’è la cronica mancanza di educazione musicale che fa parte del curriculum scolastico di moltissimi italiani. E c’è anche l’abitudine di non pensare più alla musica come a un’arte autonoma. La musica è oramai quasi sempre associata a un’immagine. È il commento di altro, una colonna sonora di qualcosa in movimento. Nel migliore dei casi commenta un buon film. Nella realtà quotidiana è lo sfondo sonoro dei supermercati, degli aeroporti, della pubblicità. Non è un fenomeno di oggi. Stravinsky lo aveva già intuito e aveva “nascosto” la sua musica più innovativa dietro le rappresentazioni dei balletti. Oggi il fenomeno è dilagante fino all’ossessione. È sempre più difficile pensare in musica. Tutto deve essere associato a un’immagine. Deve dare un ancoraggio mentale, essere rassicurante. Per questo il grande nome attira il pubblico. È tranquillizzante, è un riferimento. Evita lo sforzo di mettersi davanti a una musica e dare di essa una valutazione autonoma, personale. Non uso questo aggettivo a caso. Io stesso ho perso un lavoro molto stimolante, quello di Direttore Artistico del Trentino Jazz Festival (Valli del Noce) perché sono stato ritenuto troppo “personale” nelle mie scelte; in poche parole di non tener conto del pubblico, del mercato. Posso anche dire, però, che quando hai la possibilità di parlare con il pubblico, di spiegare le cose in cui credi, di far vedere come sia inutile suonare come suonava Lester Young (Senza possederne, peraltro, il genio….) sessanta anni fa spesso ti accorgi che qualcuno, nemmeno pochi. ti seguono. Mi è capitato più di una volta, qui a Trento, organizzando serate di ascolto rivolte a un pubblico giovane, che si è rivelato sempre particolarmente attento e stimolato. Ma il panorama generale è grigio, poco mosso. Le occasioni di lavoro diminuiscono.»
Che fare? Rinchiudersi in una sorta d’isolamento dorato, come fece l’avanguardia dl dopoguerra o in qualche maniera aprirsi al pubblico, al gusto comune?
«Né l’uno né l’altro. Oggi la scommessa per i musicisti che sentono l’esigenza di percorrere strade nuove è quella di creare un nuovo linguaggio comune. Tentare di rendere, in qualche maniera, popolare la loro musica. Scrivere e suonare cose avanzatissime che circoleranno fra un numero ristrettissimo d’iniziati, non è appassionante. Lo spirito di Darmstadt non fa per me, anche se capisco l’importanza di autori come Schoenberg o Nono nel rinnovamento dei linguaggi sonori. Io credo che un musicista contemporaneo debba, e in questo Darmstadt qualcosa ha insegnato, rendersi impermeabile da un punto di vista etico e permeabilissimo rispetto a tutto il mondo sonoro che gli fluttua intorno. Un po’ come nella scena dei Trentadue piccoli film su Glenn Gould. Quella in cui il pianista entra in una specie di autogrill, su un’autostrada canadese, e ascolta le voci degli avventori, e prova a trovare un ritmo in quell’accozzaglia di rumori. Non si deve svendere il proprio lavoro. Non potrei mai suonare musica che non mi piace; elaborare un progetto, per capirci, sui Duran Duran che ho sempre detestato. Penso invece che un musicista di oggi possa attingere tanto ai madrigali di Monteverdi quanto a una serie di Schoenberg, a un tema dei Beatles quanto a materiali armolodici. Certo c’è il rischio di cucinare un minestrone, di cadere nell’indistinto. Ma è un rischio che va corso, a meno che non si voglia continuare a copiare il jazz degli anni Cinquanta o Sessanta o l’accademia isolazionista. D’altronde la situazione delle altre arti, oggi come oggi, è tutt’altro che stagnante. Il cinema e le serie televisive propongono sempre di più temi assolutamente spiazzanti, provocatori. L’iconoclasta Tarantino riscuote un grande successo, utilizzando i materiali cinematografici più disparati, Perché la musica non può fare lo stesso, inaugurando anch’essa un linguaggio nuovo? Perché deve essere considerata un’arte destinata solo a una specie di evasione, che non deve impegnare l’ascoltatore?
Forse il nostro compito, oggi, non è quello di raccontare verità musicali, quanto di stimolare curiosità. Come scrittore è forse più facile. Il mio “Mille dischi” va appunto in quella direzione. Credo che anche come musicista la direzione giusta sia quella di aprire la mente e condividere questa apertura con chi ti ascolta. Non è facile, ma è l’unica strada che mi vedo davanti. Suonare raccontando la musica e la sua evoluzione continua.»