Di Vi Kappa Records – 2016
Danilo Gallo: basso, chitarra acustica, effetti
Valerio Scrignoli: chitarre, effetti
Kathya West: voce
«Il sincronismo è il pregiudizio dell’Oriente; la causalità quello dell’Occidente moderno» e anche «quello che ci accade è quello di cui abbiamo bisogno». Una interpretazione errata, una “coincidenza significativa”, hanno fatto sì che dovessi/volessi recensire questo Vicious dei Di Vi Kappa3 finito, non casualmente, nel mio pc. Dopo decenni di ascolti ripetuti di “altro da questo”, altro non capito sovente ma sempre con l’intenzione di capire per andare oltre l’incomprensione, leggendo e rileggendo chi pareva aveva compreso e conosciuto, mi trovo oggi a Voler scrivere di un disco i cui riferimenti sono sufficientemente “altri” per costringermi a movimenti cauti, quasi in punta di piedi. Al Duca Bianco continuo a preferire quello Nero, ai Velvet i Sao Paolo, anche se oggi trovo (finalmente!) un assai maggior godimento e stimolo nel seguire le imprese di Jimi Hendrix e John McLaughlin che di tanto jazz putrefatto. Davis ed Evans l’avevano ben capito e anche grazie a loro so ora apprezzare altri suoni, altre estetiche. Qui, sotto una sigla anonima e divertita, si celano tre magnifici musicisti: Danilo Gallo (basso, chitarra acustica, effetti), Valerio Scrignoli (chitarre, effetti) e Kathya West (voce). Per loro ammissione il gruppo nasce per amicizia e per caso e sortisce presto la presente incisione e concerti sparsi per il mondo. Il repertorio, scelto con finezza, estrema cura e mano felicissima si muove tra Lou Reed e Jim Morrison, i Talking Heads e i Nirvana, David Bowie e i Simple Minds. La formazione, senza la sovente ingombrante batteria, si regge sul magistero di Gallo e Scrignoli, ma sono le doti vocali e interpretative di Kathya West a fare di questa incisione (diretta e quasi low-fi?) una piccola gemma. Gemma perché sa evitare, partendo da tutt’altri presupposti, il trash involontario della cover band, perché in un mondo di saturo di suoni saturati, sceglie il camerismo, la concentrazione e il silenzio del “meno è più”. Gemma nascosta tra le pieghe di un mercato (discografico?) sbronzo e ipertrofico anche solo pensabile da chi ha scelto la produzione alternativa. Oltre la scelta è infine la resa dei brani a fare di questo Vicious un disco di grande seduttività, nera e sottilmente malata. Del tutto inutile scegliere tra i brani, ma Space Oddity merita la menzione, del tutto inutile “descrivere” ciò che accade, solo ascoltate. Infine una speranza e insieme un augurio: che questa singolare prova possa essere l’inizio di un rapporto proficuo con la canzone e la voce (ma l’uscita di Oxymoron sul repertorio di Beatles e Rolling Stones ne è conferma), rischiando ancor più su un repertorio proprio. In altri paesi, meno canterini e forse con meno spiagge assolate e affollate, il connubio tra canzone d’autore, pop, rock e jazz è già stato realizzato con esiti sovente fragranti. Qui un passo importante nella giusta direzione è stato mosso. Grazie!