Foto: dal sito web di Carmen Souza
La miscela non convenzionale della musica di Carmen Souza
Carmen Souza è di nuovo in Italia per una breve tour, con la sua band, per due concerti: a Trento l’11 e a Castelsardo il 12 agosto. Abbiamo approfittato dell’occasione per rivolgere alcune domande alla cantante luso-capoverdiana.
Jazz Convention: Credo che per capire la tua musica sia, più che per altri artisti, importante avere presenti le tua vicenda biografica. Sei nata e cresciuta a Lisbona, ma i tuoi genitori sono originari di Cabo Verde. Parli sia il portoghese che il creolo. Ora vivi a Londra, una città all’incrocio dei venti. Credo che questa tua esperienza di vita sia presente nella tua musica.
Carmen Souza: Certamente, ogni mio album è un capitolo della mia vita, della mia personale saudade. Ho sempre sentito in me l’anima delle isole, la malinconia della mia gente. Ricordo i lunghi periodi in cui mio padre, un marinaio, era lontano da casa. Lisbona e il Portogallo mi mancano moltissimo: ho nostalgia della luce, degli odori della campagna portoghese, il cibo. Ora vivo a Londra, questa grande crogiuolo di diversità. Londra ha una sua luce particolare, che ti permette di orientarti nella nebbia. La mia vita è questa. Oggi vivo qui e giro il mondo con la mia musica, ma sono piena dei ricordi dei miei due paesi. La gente di mare, soprattutto gli isolani, vive sempre in bilico fra cambiamento e radicamento, fra avventure e nostalgie. Devo dire che vivo bene a Londra anche perché mi fa sentire circondata dal mare. “
JC: Nella tua musica c’è molto jazz, ma non ti si può definire una vera e propria jazz singer, così come è difficile inquadrarti come artista folk.
CS: Vero. Non mi sento una cantante jazz nel senso tradizionale della parola anche se la musica afro americana è molto importante nella mia formazione. La mia musica nasce nei paesi lusofoni fra i quali, ovviamente, Capo Verde ha una importanza assoluta. Quello che cerco è il far risuonare le mie tante esperienze personali e di raccontare qualcosa di me, trovare una mia cifra musicale particolare. Nella mia anima vivono tanto Horace Silver quanto i ritmi delle mie isole: Fumana, Batuque, Morna. Mi piace farli risuonare in maniera non convenzionale, mescolandone i linguaggi, alterando i modi tradizionali di esecuzione. Credo che la mia espressività musicale vada oltre i generi e le convenzioni.”
JC: Come reagiscono i tuoi conterranei di Cabo Verde quando tu proponi questa lettura non convenzionale della tradizione?
CS: Adoro suonare nelle Isole. Mi sono appena esibita al Festival Jazz di Mindelo. Il pubblico è molto aperto e trova la mia musica, piena di tante influenze estranee alla tradizione, piacevole e rilassante. Non c’è nessun pregiudizio verso il mio modo di cantare e di suonare. Penso che la mia proposta piaccia alla mia gente, anche perché, pur cambiando l’approccio al materiale musicale, ne mantiene lo spirito.”
JC: Nel tuo canto si avverte un profondo legame con Billie Holiday, non solo in termini stilistici ma anche, forse soprattutto, emotivi. Quali altre cantanti hanno lasciato tracce sulla tua sensibilità di vocalist?
CS: Billie era un’artista immensa. È vero, amo il modo con cui trasporta chi lo ascolta nella sua vita, nella sua esistenza tanto tragica. Trovo insopportabile che una donna del genere abbia dovuto condurre un’esistenza tanto infelice. Sono stata molto influenzata da Ella e, ovviamente da Cesaria Evora, la cantrice delle mie isole. Naturalmente non sono state le sole artiste che mi hanno ispirato. Vorrei però dire che nel mio modo di cantare risuonano ancora di più le voci strumentali. Sono una miniera inesauribile di sonorità, di espressione e di interpretazione.”
JC: Oggi, in campo musicale, si parla sempre più di fusion, di contaminazione, di linguaggi aperti. Eppure nella nostra epoca stanno risorgendo varie forme di razzismo, di fanatismo religioso, di intolleranza. Pensi che la musica sia una specie d’isola felice, che possa dare un “messaggio” di apertura?
CS: Viviamo in tempi davvero strani, tempi di estremismi, barriere e chiusure mentali. Sono convinta che parole oggi tanto di moda come “social” o “sharing” siano la maschera di una società in cui dominano l’egoismo, la chiusura, la superficialità, il culto dell’apparenza. La musica potrebbe essere un mezzo di socialità, una scuola di tolleranza e rispetto, ma temo che il mercato abbia ben altri obbiettivi. Penso che la musica abbia perso molto del suo significato. Nina Simone ha detto una volta che è un peccato, uno spreco addirittura per un artista non esprimere, i propri tempi, restare al di fuori della vita reale. Un artista ha la potenzialità di parlare a molte persone e di aiutare a capire meglio la realtà. Ma oggi tutto è molto superficiale. La musica, o per meglio dire il mercato musicale, non vuole raccontare più niente di importante. A un performer resta soltanto la gioia del contatto con il pubblico, lo scambio di emozioni fra la platea e chi sta sul palco.
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