Dino Betti van der Noot – Où sont les notes d’antan?

Dino Betti van der Noot - Où sont les notes d'antan?

Stradivarius – STR57916 – 2017





Dino Betti van der Noot: direzione

Gianpiero Lo Bello, Alberto Mandarini, Mario Mariotti, Paolo De Ceglie: tromba, flicorno

Luca Begonia, Stefano Calcagno, Enrico Allavena: trombone

Giancarlo Marchesi: trombone basso
Sandro Cerino: flauti, clarinetto basso, sax alto
Andrea Ciceri: sax alto

Giulio Visibelli: flauto, sax tenore

Rudi Manzoli: sax tenore

Gilberto Tarocco: clarinetto, sax baritono

Emanuele Parrini: violino

Luca Gusella: vibrafono

Niccolò Cattaneo: pianoforte

Filippo Rinaldo: tastiere

Vincenzo Zitello: arpa

Gianluca Alberti: basso elettrico

Stefano Bertoli, Tiziano Tononi: batteria, percussioni






Dino Betti, a cadenza fissa, ogni due anni, pubblica un disco e puntualmente coglie nel segno, arricchendo, così, una discografia pluripremiata, con merito, ai referendum delle riviste specializzate.


Ci sono delle costanti nel metodo di lavoro del bandleader milanese. Innanzitutto, l’orchestra è sempre formata più o meno dagli stessi elementi ormai da otto-dieci anni, con modeste variazioni nell’organico, da quando, cioè, il compositore ha preso coscienza, come ha dichiarato in un’intervista, dei progressi qualitativi dei jazzisti italiani. La new entry nell’ensemble più significativa, in questa incisione, è rappresentata dal tastierista lombardo Filippo Rinaldo. I pezzi, poi, contengono nei titoli la citazione, adattata all’occorrenza, di poeti e letterati illustri. In quest’opera rinveniamo rimandi a Villon, all’amato Shakespeare e al persiano Omar Khayyam. Le composizioni traggono spunto, ancora, in alcuni casi, da arie classiche completamente trasfigurate. In questo album, invece, è un motivo tradizionale padano ad offrire l’input per costruire un segmento in cui si fatica, in verità, a riconoscere la base di partenza, tanto la frase isolata e ripensata è lontana dallo specifico della canzone popolare d’origine.


È altrettanto coerente e distinguibile il suono personale cercato e voluto da Dino Betti, che traspare e contraddistingue tutto l’album. Anche questo è un segnale preciso della capacità dell’autore di apporre la griffe in ogni frammento della sua produzione, da artista vero.


Il cd supera i settanta minuti e consta di cinque lunghe takes.


In Où sont les notes d’antan, il flauto di Sandro Cerino galleggia sui pieni orchestrali o su un accompagnamento ridotto a poche unità, scompare quando la band all’unisono mostra i muscoli esponendo i temi, riappare e si inserisce con prepotenza nella tessitura intrecciata da pochi/tanti strumenti alternativamente..


Thad Muddy Mirror, come anticipato, si riallaccia al refrain di Sciur padrun dalli beli braghi bianchi, ma siamo lontanissimi dal folk-jazz. Inizialmente siamo vicini, infatti, al clima delle colonne sonore di Ennio Morricone scritte per gli spaghetti-western, nel ritmo almeno. Poi saliamo su toni drammatici al manifestarsi di un assolo grintoso e prepotente di Giulio Visibelli. Il pre-finale è solenne e grandioso, quando l’ensemble ripete con forza il ritornello, salvo lasciare spazio al clarinetto basso di Cerino, che accende la miccia e deflagra nei tempi dovuti, non istantaneamente cioè. La conclusione è ancora imponente e suona come un omaggio a posteriori alla figura delle mondine e allo sfruttamento della loro fatica nelle risaie.


Velvet is the Sound of Drums-from Alar procede tranquilla, pacata, senza apparenti scossoni per i suoi tredici minuti di durata. Ovviamente l’andamento della traccia non è rettilineo. Ci sono curve e deviazioni improvvise sempre dietro ogni angolo. In particolare si impone un intervento carico di energia, veemente del trombone di Luca Begonia, sostenuto dalle percussioni, in un intermezzo caldo e tirato, mentre gli altri solisti preferiscono le tinte sfumate, adeguandosi al carattere sospeso e sognante del brano, per il resto della sua durata.


The Paths of wind inizia con un incipit suggestivo, d’atmosfera. Si capisce che sta per accadere qualcosa, ma non si sa né quando, né di preciso che cosa stia per succedere. Si verifica un crescendo, ad un certo punto e andiamo a scoprire le carte. È Luca Begonia a dare la scossa immergendoci in un blues, un blues verace e autentico. L’orchestra sta al gioco e comincia il girotondo degli assoli, in coppia, in trio a movimentare e ad infiammare una buona parte del pezzo. Tutto risolto? Manco per l’ombra. Si chiude con la citazione di un tema antico di Dino Betti e con un’esplosione conclusiva per continuare a dispiegare invenzioni e meraviglie. Mai accontentarsi delle soluzioni più semplici, siamo avvertiti…


Threading the dark eyed night è su tempo moderato con chiazze di colore sparse dai fiati, larghe e profonde. Si riconoscono addirittura accenti verdiani, in alcuni tratti. Mandarini e Parrini, secondo copione, prendono in mano la situazione con un dialogo iterato e cangiante, compositivo dalla prima all’ultima nota.


Où sont les notes d’antan, infine, è un disco realizzato con tanta passione e altrettanta competenza da un musicista che padroneggia la tradizione afroamericana, studia e apprezza, allo stesso modo, i grandi maestri sinfonici, ha una visione aperta sull’attualità a prescindere dai generi. Oltre a tali aspetti, Dino Betti ama particolarmente lavorare con una big band sempre in linea con le sue idee, le sue intuizioni, le sue metodologie, in grado, perciò, di far splendere di luce viva le sue creazioni.



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