Jacopo Taddei. Un sassofono tra mondo classico e jazz

Foto: Pablo Massa










Jacopo Taddei. Un sassofono tra mondo classico e jazz

Jacopo Taddei ha ventuno anni. Come quella di tanti altri, la sua storia comincia in una banda di paese, la Filarmonica Giuseppe Pietri, dove comincia a suonare il sax da bambino e dove il suo primo insegnante di strumento, Filippo d’Ecclesiis, scopre il suo talento. Il paese in questione è Portoferraio, Isola d’Elba, nel quale Jacopo è nato e cresciuto. Il conservatorio più vicino e quello di Livorno, cui è ammesso, a nove anni, con votazione 10/10 e dove Jacopo studia fino al terzo anno per poi trasferirsi – sempre alla ricerca dei più autorevoli docenti di riferimento – prima a Pesaro, al Conservatorio G. Rossini, sotto la guida di Federico Mondelci, dove nel giugno 2013 si diploma con dieci e lode e Menzione d’Onore e poi a Milano, dove consegue la laurea con Lode e Menzione, nel marzo 2016. È giudicato il miglior allievo della scuola, e non solo della classe di sassofono. Fa man bassa di premi prestigiosi e ottiene anche una borsa di studio per la Berkelee.

Quest’ultimo dato testimonia come nel suo orizzonte artistico ci sia anche la musica afro-americana. Il suo interesse per il jazz è certo, come dimostrano i suoi studi con Stefano Cocco Cantini, Tino Tracanna, Dino Govoni e Achille Succi.

Jazz Convention: Verrebbe da dire che, per chiunque suoni il sassofono, confrontarsi con la tradizione jazzistica, con la teoria e la pratica dell’improvvisazione è praticamente inevitabile Soprattutto per uno strumentista classico, che parte da un repertorio relativamente limitato. È una banalizzazione? In altre parole il tuo interesse per il jazz è una necessità professionale e di studio o ti senti anche jazzista? In ogni caso, cosa “invidi” ai tuoi colleghi improvvisatori?

Jacopo Taddei: Due anni dopo aver imparato l’alfabeto con le ventuno lettere, mi sono avvicinato al pentagramma, con i suoi sette piccoli segni. Tutt’e due sono stati semenza per crescere. Nella mia formazione l’impronta è classica. La preparazione accademica, con la concezione propria di ordine e proporzioni, è stata indispensabile per acquisire padronanza tecnica e personalità. Con basi solide di autodisciplina e cultura musicale poi, vien da sé dar vita a un linguaggio proprio, sia classico sia jazzistico. Una preparazione classica non contrasta affatto con quella jazzistica. L’interprete vero ha personalità, non uno stile. Si trasfigura nel linguaggio cui deve dare vita. È evidente che il saxofono sia uno strumento con più futuro che storia. In circa 170 anni di vita, rispetto ad esempio al violino, tra le numerose migliaia di partiture a lui dedicate, ne ha avute poche di compositori importanti. Non è certo un protagonista che ha influenzato dal punto di vista linguistico, la musica sinfonica. Anche se, col tempo, sono certo che grandi compositori legheranno la loro musica a questo strumento. Mentre nel jazz è imprescindibile. La connotazione del sax come elemento jazzistico appare inevitabile. Ma non è ineluttabile che un sassofonista si avvicini al jazz. Può dedicarsi alla musica contemporanea, d’avanguardia. Avvicinarmi alla prassi musicale dell’arte dell’improvvisare è stato spontaneo. Il confine tra i generi musicali mi è sempre parso molto esile. Forse perché, anche in famiglia, ho avuto una “doppia vita” nell’ascolto. In definitiva, occorre prima assimilare per poi ricostruire con spirito critico. Suscitare interesse, arrivare al cuore di chi ascolta, è per me connaturato a tutti i linguaggi musicali. E non può avvenire per calcolo, convenienza. A proposito dell'”invidia” verso i jazzisti, ricordo che, molti anni fa, ai Seminari di Siena Jazz, un docente americano, curioso e appassionato, sentendomi studiare alcuni esercizi meccanici utili al saxofonismo classico, mi confessò che era un suo rimpianto non averli mai eseguiti. E l’indomani, all’ora della pausa dei corsi, per i corridoi della Fortezza Medicea, risuonavano i suoi approcci ai metodi classici che gli avevo prestato. Senza preconcetti, come per gioco. Spesso sono i jazzisti ad apprezzare le solide fondamenta che si creano in Conservatorio e su cui si costruisce il proprio percorso musicale. In passato, la libertà di movimento era una caratteristica di coloro che facevano jazz, mentre ai classici veniva negata. Oggi, la possibilità di avere carriere parallele, ha cambiato finalmente lo scenario. E i jazzmen che conosco sono così rigorosi che tengono a grande distanza l’approssimazione quasi più di alcuni colleghi classici…

JC: Per decenni è invalsa una mentalità, una specie di senso comune, che erigeva steccati e scavava fossi fra i due mondi, quello classico e quello jazzistico. Credi che questa mentalità sia superata o continua a vivere in una certa accademia o in un pubblico un po’ pigro?

JT: In passato nell’ambiente accademico l’improvvisazione è stata emarginata come fosse una pratica minore. Il feticcio della pagina scritta superiore all’oralità con cui si tramanda il jazz è ancora un po’ radicato. Ma i due linguaggi, classico e jazz, in realtà, sono giustapposti. L’uno cresce con le sue fronde sul tronco svelto dell’altro. Con rimandi, connessioni. Non è certo un mistero che Bach, Händel, Scarlatti, Brahms, Chopin, Debussy, come tanti altri grandi, improvvisassero. Anche nei Conservatori, è avvenuto da qualche tempo un passaggio dalla cultura “paludata” a un pensiero più libero. Ora è il pubblico stesso che, caduti i generi, chiede all’artista un nuovo atteggiamento. C’è stato un cambio generazionale.

JC: Oggi è di gran moda parlare di “contaminazione”, di cross over, di fusione dei linguaggi. Non solo. Diversi strumentisti classici dicono che le sale da concerto rischiano di svuotarsi: secondo loro i repertori andrebbero rinnovati. Anche il jazz si pone questo interrogativo . Tu cosa ne pensi?

JT: L’ascoltatore esperto che ascolta in modo adeguato e comprende il messaggio musicale è, in effetti, sempre più raro. Temo, purtroppo, che il depauperamento del pubblico faccia parte di un processo irreversibile di crisi della cultura. Il discorso mediatico oggi è importante. Forse è utile che il presente non sia vorace. Non ci si può nutrire solo del presente e divorare il passato. Più che di rinnovamento, che evoca l’idea di musicisti nati tanto tempo fa e perciò ormai, secondo una certa mentalità, “da gettare”, parlerei di processo di metamorfosi. Potrebbe somigliare a un processo naturale, biologico. Dai madrigali del ‘500, Ennio Morricone, per parlare di colossi musicali contemporanei, ha attinto il suo sapere contrappuntistico e formale. Spesso è proprio dal passato che si prendono gli stimoli per progredire e realizzare le potenzialità. Esplorare va bene. Ma la musica deve essere comunque buona. Si è sviluppata una vera industria di musica commerciale di consumo. Noi giovani ne siamo i principali fruitori. Musiche sciatte, sgraziate e banali, onnipresenti, con cui cresciamo. Il fine di noi musicisti, invece, dovrebbe essere proporre sempre ottima musica. E contenuto, bellezza, nascono da una conoscenza approfondita di quel che ci ha preceduti. L’espressività è nutrita di mente e cuore. Io amo camminare su strade nuove. Nei miei recital, scelgo spesso di suonare brani di compositori emergenti. Il pubblico si diverte di fronte alle commistioni e non le trova blasfeme. Certo sono necessari stile, senso della misura, gusto e, ultimo ma non ultimo, humour. L’ibridazione dei canoni classici con il jazz afroamericano e il folclore esotico, soprattutto brasiliano o argentino, ad esempio, ha una carica innovativa di creatività. Sono convinto, e mi impegno a dimostrarlo artisticamente, che la buona musica è viva e sta bene. La musica è arte, un patrimonio di tutti, ma ci vogliono i musicisti per condividerla. La storia del sassofono è vastissima pur essendo questa musica relativamente giovane.

JC: Ovvio chiederti quali sono i tuoi musicisti di riferimento in campo jazzistico, anche alla luce degli studi che hai condotto e dei maestri che hai avuto. Visto che suoni i quattro sax canonici, mi vien voglia di chiederti di citarne almeno uno per categoria. Se segui anche il panorama italiano, potresti indicarmi qualche collega che ammiri.

JT: Ci sono musicisti geniali e dimenticati ingiustamente. Alcuni sono sopravvalutati, figure totemiche grazie ad una fama eccessiva. A volte conta anche la vita scapigliata o la longevità della carriera, più che i traguardi espressivi raggiunti. I miei criteri di scelta, sono forza, equilibrio, appassionata ricerca espressiva. Nelle dita, nel respiro, nella sensibilità. Ecco la mia costellazione del jazz, dove hanno acquistato un loro posto, in ordine non gerarchico ma soltanto alfabetico Gerry Mulligan fra i baritonisti,: Michael Brecker, Stan Getz, Dexter Gordon, Coleman Hawkins, Chris Potter, Joshua Redman, Sonny Rollins, Wayne Shorter, Tino Tracanna fra i tenoristi; Eric Dolphy, Rosario Giuliani, Art Pepper, Phil Woods fra gli altisti e Stefano Cocco Cantini, Stefano Di Battista, Javier Girotto e Dave Liebman fra i suonatori di soprano. Posso citare però anche Eddie Daniels, anche se è prevalentemente un clarinettista.

JC: Il tuo futuro a partire da Berkelee. Non ti vedo proprio in un’orchestra classica, tantomeno ti immagino sezione in una big band (a parte il fatto che non ce ne sono quasi più). Magari suonerai una musica tua. Pensi, di là da tutto che l’Italia offra chances a un giovane di talento? O sei tentato, come mi sembra di aver capito da qualche tua intervista, potresti essere tentato da qualche sirena americana.

JT: Ahimè le strabilianti band della fine degli Anni Venti, sono un lontano ricordo, ma sarebbe stato molto divertente far parte di un’orchestra come quella di Fletcher Henderson! In verità le emozioni che ho provato suonando diretto dalla bacchetta di Yuri Bashmet, Daniele Gatti, Antonio Pappano, Daniel Smith, Yoichi Sugiyama, le ho ancora addosso. Certo, il saxofono non è presente nell’organico dell’orchestra sinfonica e le collaborazioni sono sporadiche. La mia strategia di vita è “step by step”. L’esperienza bostoniana alla Berklee è stata molto intensa e importante per entrare nel mood di quel continente, inscindibile dal sound jazz. La mia frequentazione con l’America? Per intanto vi rimetterò piede ad aprile, invitato per il concerto di apertura del New York Chamber Music Festival. Sono un wanderer, nel mio itinerario musicale. Quanto sia proteso verso quell’orizzonte americano in cui quasi ogni italiano ambisce inserirsi per esistere più compiutamente, lo sto ancora valutando.



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