Foto: Archivio Fabio Ciminiera
Giovanni Falzone. Migrante
Migranti. La parola stessa è divisiva e dà origine a inquietudini, paure. Comunque si giudichi il fenomeno, è chiaro che esso è, allo stesso tempo, causa ed effetto di un mondo che sta cambiando radicalmente e che è e, sarà a lungo, al centro dell’attenzione pubblica. Anche il jazz italiano, non poteva essere diversamente, si sta interrogando su questi temi. Nel giro di pochi mesi sono usciti ben due dischi dedicati a questo fenomeno epocale. Del primo, Migrantes, del quartetto di Pasquale Innarella, Jazz Convention ha già parlato con la recensione di Fabio Ciminiera, che ha posto l’accento sull’impegno civile e politico che lo anima. Il disco di Giovanni Falzone, un solo con tromba, voce, oggetti ed elettronica si chiama invece Migrante. La consonante finale diversa dei titoli dice di un approccio diverso: da una parte un grido “politico”, dall’altra una meditazione musicale.
Giovanni Falzone: Ho usato la parola al singolare per raccontare una condizione esistenziale – mi ha detto il musicista siciliano, reduce da un concerto parigino in cui ha portato questo suo affascinante progetto- La storia di queste masse d’individui che lasciano le loro terre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di un traguardo, magari non chiaro all’inizio, da raggiungere, è, nel mio modo di vedere, una metafora della vicenda degli artisti e, forse, degli esseri umani in generale. Anche la mia vicenda personale, e ancora prima quella della mia famiglia, è quella della migrazione. Ho lasciato un piccolo paese della provincia siciliana intraprendendo un viaggio in cerca di una vita nuova. Nel mio bagaglio c’erano le epoche conoscenze musicali maturate da ragazzo e poi approfondite al conservatorio. Ho portato ricordi della musica della mia terra che ancora risuonano nei miei dischi e nei miei concerti, insieme con tutto quello che ho imparato con lo studio e con la pratica. Anche la mia scelta di essere un jazzista e di praticare questa musica tanto inclusiva e aperta fa parte del mio essere migrante; il jazz è il prodotto di un esodo (anche se non volontario) gigantesco e dell’incontro, spesso sofferto e subito, che milioni d’individui sradicati ebbero con musiche e culture diverse. Allo stesso modo nascono, il samba, le musiche caraibiche. Sono tutte musiche in viaggio, musiche oceaniche, così come il tango. Mi rendo conto che quello della migranza è stato ed è un gigantesco fenomeno collettivo. Ma è anche una somma di storie individuali, di persone vere, in carne e ossa che affrontano il destino. Per questo ho scelto di incidere questo disco in solo. Chi migra è in qualche maniera sempre solo. Tenta di costruire il suo futuro personale. Ogni storia è unica. Il viaggio verso una nuova vita è in qualche maniera un’esperienza irripetibile. Così ogni volta che salgo su un palco a suonare il mio progetto racconto un viaggio diverso. I bagagli sono i miei strumenti, la mia voce e il mio set di oggetti e di apparecchiature elettroniche. Ogni volta l’ambiente in cui suono e il pubblico mi danno sensazioni e stimoli diversi. Il disco è un archivio, un magazzino della memoria da cui traggo spunti e suggestioni. In realtà ogni suono che esce dalla mia tromba, voce o oggetto, è rigorosamente live. Ogni concerto, ripeto, è unico, come un viaggio. L’elettronica non è un corredo fisso, è un’opportunità che ogni volta mi porta da qualche parte diversa. Io voglio un’elettronica espressiva, poetica, che non faccia da sfondo al mio suono, ma che sia parte integrante di esso o sia una parte dialogante. A volte sento di suonare in duo, in trio. Quello che voglio nei miei solo live, è riprodurre una comunità di suoni. Narrare le solitudini e gli incontri. Voglio, partendo da un dialogo interiore con me stesso, raccontare una storia. La storia che narro io diventa un’altra nella memoria e nella sensibilità di ogni singolo ascoltatore. Ed è bello quando migranti reali, dopo un concerto, mi raccontano le loro esperienze. Dalla solitudine (anche se in realtà suoni e colori fanno sempre molta compagnia) possono nascere incontri diversi.
Jazz Convention: Non trovi rischioso per la comprensione del tuo lavoro che ogni ascoltatore possa leggere in maniera anche molto diversa dalla tua la tua stessa musica. Non temi il travisamento delle tue intenzioni?
GF: È un problema reale e terribilmente complesso. Ci sono artisti (il primo esempio che mi viene alla mente è quello di Ennio Moricone) che fanno fatica a riconoscersi nella rilettura delle loro musiche da parte di altri. Come d’altronde ci sono ascoltatori che si aspettano di sentire un musicista suonare in una certa maniera e tendono a non accettare le svolte, i mutamenti. È abbastanza comune che accada ed è anche comprensibile. Ma bisogna accettare il principio che quando un artista congeda la sua opera questa divenga anche proprietà di qualcun altro, anche se quest’altro non è un addetto ai lavori. D’altronde io stesso sento “Migrante” come un progetto che muta sera per sera, concerto dopo concerto. Non sono nemmeno d’accordo con chi dice che è solo la musica che conta, al di là dei significati che essa stessa trasmette. Secondo me al centro di un lavoro artistico c’è la comunicazione di emozioni, di sentimenti. A volte può essere necessario utilizzare le parole per supportare il discorso musicale che in sé e sempre piuttosto complesso. Per me, ad esempio, i titoli sono molto importanti a spiegare le cose che intendo dire. Hanno un legame con la mia musica. C’è sempre un livello di comunicazione alto e uno più immediato. In altre parole raccontare se stessi agli altri è sempre un lavoro complesso: non lo si può affrontare con schematismi quali “conta solo la musica”. Non è una questione astratta o accademica. Se al centro del mio pormi davanti al pubblico, su un palco o attraverso un disco, c’è uno scambio di emozioni, è chiaro che io farò risuonare nella mia musica le esperienze d’ascolto che mi hanno segnato: Bach, Verdi, Ornette, Bird, ma anche Edgard Varese e tutta l’avanguardia contemporanea; Satchmo e la musica per banda, il rock, che ho esplorato con Le Mosche Elettriche, come il folk siciliano. Una cantante come Rosa Ballistreri ha un’importanza musicale ed emotiva, per me, pari a quella di Charlie Parker. Questo tipo di approccio mi rende libero. Certo, sono un jazzista. Ma un jazzista siciliano, che ha suonato per anni un’orchestra classica, che ha ascoltato e amato, come tutti, il rock nei suoi anni giovanili.
JC: In effetti, il tuo percorso è articolato. La tua discografia è frastagliata. Vi troviamo i vari omaggi a Bird, Ornette, Jimi Hendrix, ai Led Zeppelin. Vi s’incontrano titoli come Big Fracture, Earthquake Suite, R-Evolution suite. Il tuo ultimo disco è dedicato al moto dei pianeti, alla magia del loro stare in equilibrio. La tua pagina You Tube è un vulcano di momenti di sperimentazione su vari terreni, dal jazz tradizionale al solo con elettronica su Bach e Verdi, dal folk siciliano a tributi a Duke. Abbiamo visto da dove vieni. Dove stai andando?
GF: Visto che hai citato quei titoli “geologici”, ti rispondo con restando sullo stesso campo. Vicino al mio paese, Aragona, in provincia d’Agrigento, c’è una zona geologica, non molto estesa, molto particolare. Si chiama Maccalube ed è un vulcanismo molto particolare. Il sottosuolo è formato da varie stratificazioni (Argille con resti d’animali, argille sabbiose, acqua dolce e salata) Ad un certo livello si trova del gas che interagendo con gli altri elementi forma dei micro vulcani che fanno gorgogliare continuamente la superficie. La loro pressione, il loro lavoro sotterraneo è tale che ogni sei sette anni circa la superficie del terreno si ribalta e cambia aspetto. E’un paesaggio in continua mutazione e mai fermo. Mi sembra di portarmi dentro l’agitazione di quel piccolo pezzo della mia terra al quale ho intitolato la mia etichetta discografica.
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