Sicily Jass. la storia di Nick La Rocca raccontata da Michele Cinque

Foto: la copertina del DVD









Sicily Jass. la storia di Nick La Rocca raccontata da Michele Cinque


Michele Cinque: Nick La Rocca si sentiva assolutamente il padre del jazz, non aveva dubbi… tanto da far scrivere sulla sua tomba, come epitaffio, «Here lies the world’s first man in jazz» («Qui riposa il primo uomo al mondo del jazz»). In qualche modo, queste parole rappresentano la “maledizione” di tutta la sua storia, voler essere l’unico, sentirsi defraudato di una carriera da star, perchè lui e la Original Dixieland Jazz Band sono stati per un lungo periodo la band più pagata al mondo. E anche il figlio, quando lo abbiamo portato sulla tomba del padre – erano quasi dieci anni che non tornava al cimitero – rilegge con grande partecipazione la scritta e, come a rispondere o a suggellare la sua vicinanza allo spirito del padre, ripete «I’m with you…» Nella seconda parte della sua vita, La Rocca si era ammalato di un sentimento anche molto umano che, con sguardo storico, muove anche una certa compassione nei suoi confronti: una deriva psicotica, se mi passi il termine forte, un meccanismo anche molto infantile che rende il personaggio estremamente fragile. Una fragilità che si coglie se si va oltre la forza d’urto e la bruttura delle sue espressioni xenofobe e razziste. Quando negli anni Trenta e Quaranta si iniziano a scrivere le prime storie del jazz, gli viene dedicato sempre meno spazio: ha vissuto questa situazione senza avere gli strumenti culturali per poter dialogare con i primi creatori della storiografia del jazz. E così è esplosa in lui una megalomania che si era già manifestata in occasione delle varie ricomposizioni della Band, quando addirittura i suoi musicisti smisero di tollerare i suoi metodi e le sue prese di posizione.



Michele Cinque ha raccontato la vicenda storica, musicale e umana di Nick La Rocca in un’opera sfaccettata e capace di unire vari piani di esposizione e approfondimento. Sicily Jass è, infatti, una sintesi tra documentario e film, con immagini d’epoca, interviste, momenti musicali, narrazione recitata e indagine nella psicologia dei personaggi. La storia del jazz e la storia delle migrazioni siciliane verso New Orleans trovano un punto di incontro nella figura del cornettista. Un personaggio eccentrico ma non marginale, allo stesso capace di impersonificare il mainstream, con la prima registrazione discografica di un brano jazz e le primissime avvisaglie del marketing musicale, e finito poi fuori dalla corrente della storia e della musicologia. Il film si concentra intorno a due protagonisti, il figlio Jimmy La Rocca e Mimmo Cuticchio con i suoi pupi, e traccia così la parte più emotiva del racconto: gli interventi di critici e collezionisti, da Dan Morgenstern ad Amiri Baraka a Mark Berresford – il ricercatore che ha curato la colonna sonora disponibile con la nuova edizione “dedicata” al centenario di Livery Stable Blues – restituiscono le diverse prospettive storiche e musicologiche della figura di La Rocca, alla ricerca di un ritratto “laico” ed equidistante di La Rocca. «Credo che ora sia finalmente arrivato il momento per analizzare la sua figura prendendo in considerazione tutti i vari elementi…» aggiunge infatti il regista.



Jazz Convention: Nick La Rocca ha registrato il primo disco riconosciuto di jazz ma non è l'”inventore” del genere… La metafora con i fratelli Wright che utilizza il figlio riassume la questione in modo poetico ed efficace… come i Wright sono stati capaci di raccogliere tutti gli esperimenti che venivano effettuati in quegli anni e controllarli per riuscire a compiere il primo volo, secondo Jimmy La Rocca, il cornettista è stato capace di fissare per primo su disco il suono della sua formazione e, in generale, di una corrente sonora e di un momento storico.


MC: Se vogliamo, questa metafora è stata una concessione di Jimmy La Rocca a quella maledizione di cui parlavo prima e che il figlio, in qualche modo, porta ancora con sé e sta superando, forse anche grazie al film. La realizzazione di Sicily Jass non è stata avviata dal centenario di Livery Stable Blues, anche se poi, per così dire, ne è stata incentivata. Stavo realizzando un film biografico su Louis Armstrong per la RAI e mi sono trovato di fronte al fenomeno iper-reale di Livery Stable Blues, il “primo disco di jazz”. Questa incisione rimane tutt’oggi un fattore divisivo tra chi ama e santifica La Rocca e chi lo considera un politico e un apporfittatore. L’idea di fare una colonna sonora della sua musica nasce proprio per raccontare lui come musicista e ricordare come i suoi brani venivano interpretati anche da artisti come Louis Armstrong, Fletcher Henderson, Joe Venuti, Bix Beiderbecke o Frankie Trumbauer.



JC: Il suo volersi attestare come «World’s first man in jazz» lo ha portato a comportarsi in un modo alquanto sopra le righe e, di conseguenza, ad offrire il destro per il trattamento che ha ricevuto…


MC: Se si considera che, nel 1936, Louis Armstrong nella sua prima autobiografia dedica sei pagina a Nick La Rocca e all’Original Dixieland Jazz Band, si capisce come tutto questo sia venuto solo in un secondo momento. E, naturalmente, Armstrong non la prese affatto bene quando La Rocca, negli anni quaranta, inizia a dire che i neri non avevano nessun ruolo nella storia del jazz. In pratica, la sua malattia si manifesta dopo che lui rimette insieme la band e, in piena Era dello Swing, nessuno se li fila. Il dixieland era la musica della prima guerra mondiale, la musica con cui i soldati americani, neri e bianchi, tornavano dal fronte e si riconoscevano come statunitensi; alla metà degli anni Trenta, era diventata una musica che non rispecchiava più il presente.



JC: La concezione del film è molto particolare. Hai unito diversi piani narrativi, dal documentario alla finzione agli interventi musicali di Roy Paci e Salvatore Bonafede…


MC: La sfida è stata proprio far dialogare un piano di finzione molto evocativo e il documentario classico. Il piano di finzione è concentrato su Mimmo Cuticchio, il narratore, che dialoga in modo surreale con i suoi pupi e sulla musica che ha, a sua volta, un ruolo emotivo e narrativo con la presenza di Roy Paci, Salvatore Bonafede e la Banda di Salemi ed è ambientato a Salaparuta il paese da cui sono partiti i genitori di La Rocca e che è stato distrutto dal terremoto del Belice ed è rimasto cristallizzato all’Ottocento. Dall’altra parte, ci sono gli interventi di questi guru del jazz come Dan Morgenstern o Amiri Baraka – il suo unico intervento nel film riesce a dare la profondità delle ombre sul personaggio e ad evitare il rischio di fare un “santino” – e le immagini d’epoca. Ho dovuto inserire un narratore perchè la storia era talmente persa nel tempo e, invece, avevo bisogno di mantenere il contatto con i dati storici e, solo con la dimensione del documentario, questa parte sarebbe stata troppo fragile. E, poi, perché volevo fortemente che questo film parlasse siciliano, volevo che ritornasse alle origini della cultura che Girolamo La Rocca, suo padre, si è portato dietro. Girolamo era un personaggio del tutto particolare: aveva suonato la tromba nella Banda dei Bersaglieri del Generale La Marmora, era il calzolaio di Salaparuta e suonava la tromba nella banda del paese. Quindi, quella cultura musicale del tutto unica della Banda delle regioni meridionali, dove si fondono elementi popolari e le arie celebri delle opere liriche. Volevo che il film parlasse siciliano e che parlasse al pubblico in maniera diretta e non attraverso la mediazione di chi ha solamente uno sguardo storico.



JC: Tutto il racconto avviene, poi, nella cornice della storia dell’emigrazione e, in particolare, dell’emigrazione dei siciliani a New Orleans. Il jazz è stata tra le prime forme d’arte a superare i confini geografici, razziali e di classe. L’argomento della migrazione – argomento che hai trattato anche in altri tuoi lavori – è diventato naturalmente un aspetto fondamentale di Sicily Jass…


MC: La parte politica del jazz è stata quella che mi ha fatto avvicinare a questa musica. Un aspetto che forse abbiamo dimenticato e messo troppo spesso in secondo piano. Il jazz è una musica profondamente politica e non solo per gli afro-americani, anche se, come si sa, avuto moltissima parte nel movimento politico dei diritti civili. Ho appena finito un film sulla migrazione odierna che uscirà nel 2018 e ho ritrovato moltissimi punti in comune con l’esperienza di New Orleans al passaggio tra l’Ottocento e il Novecento che ho studiato profondamente per realizzare Sicily Jass. Da parte sua, il jazz ha ricucito una ferita con cui gli Stati Uniti fanno ancora i conti dopo oltre un secolo: in qualche modo, il jazz l’aveva già superata. All’inizio del Novecento, i siciliani erano trentamila su una popolazione di duecentomila persone a New Orleans: la famiglia Matranga gestiva il commercio delle banane che arrivavano dal Sud America, altri siciliani controllavano i docks nel porto, ci sono storie pazzesche che riguardano la comunità siciliana. Il Regno delle Due Sicilie, ancora prima dell’unità d’Italia, aveva un console a New Orleans perchè la Louisiana era uno dei suoi principali partner commerciali. La migrazione ha dato vita ad una musica come il jazz che è la musica della modernità: naturalmente tutte queste cose nel film non ci sono, perché si finisce con il concentrarsi su una storia particolare, ma ne fanno parte integrante e ne costituiscono le fondamenta.



JC: In tutta la vicenda del jazz, ritroviamo storie di migrazioni più o meno volontarie, più o meno forzate… Se solo si pensa alla tratta degli schiavi neri dall’Africa sul continente americano e alle sue conseguenze storiche e musicali…


MC: A differenza degli irlandesi per esempio, i siciliani avevano avuto la dominazione araba e quindi avevano avuto un contatto con i neri e, in generale, con popoli diversi: i siciliani non erano razzisti, anzi nei campi di cotone erano considerati l'”anello mancante” tra bianchi e neri, lavoravano fianco a fianco con i neri. E così diventa ancora più paradossale il fatto che il “padre siciliano del jazz” sia razzista e dica le cose, del tutto condannabili, che ha detto e che riporto nel film. Il suo razzismo nasce, però, dal suo essere ferito e non per un credo politico. Si è sentito defraudato di una cosa che lui riteneva sua. Secondo me, la storiografia non ha capito questo aspetto di La Rocca ed è un qualcosa che oggi, a un secolo di distanza, possiamo considerare con molta più serenità nell’analisi complessiva del personaggio.



JC: Quanto è stata importante la presenza di Amiri Baraka nel film?


MC: È stato semplicemente fondamentale. Non è stato facile portarlo a parlare di Nick La Rocca «and those white people», come dice nel documentario. Poterlo incontrare in una delle ultime interviste che ha rilasciato, è stato un grande regalo che Sicily Jass mi ha fatto: conoscere l’autore di uno dei libri su cui maggiormente mi sono formato la mia visione politica e culturale del jazz. La sua presenza, con il suo peso e la sua importanza, da equilibrio a tutto il racconto. Abbiamo chiesto a diversi dei più importanti esponenti della musica afroamericana di oggi di essere intervistati per il film e non ce l’hanno concessa.



JC: Ci sono due momenti in cui metti lo spettatore a confronto con le emozioni della storia: quando Jimmy La Rocca apre la custodia della cornetta del padre e fa vedere lo strumento che lui usava e quando Mimmo Cuticchio racconta ai suoi pupi la notizia della morte di Nick La Rocca. Sono due momenti simbolici e narrativi in cui sottolinei come quest’uomo sia entrato nella storia…


MC: Nick La Rocca è un uomo che voleva entrare nella storia, forse con troppo forza. È stato un uomo che, sbagliando quasi tutto, ha voluto ritagliarsi un ruolo tra le stelle della musica. E questo suo sbagliare tutto è la parte che all’inizio te lo fa odiare: il rapporto con il personaggio non è stato affatto facile. A me interessa che venga rimesso al centro dell’attenzione il suo ruolo come musicista… e spero che il cd che abbiamo realizzato porti a questo. D’altronde, Bix fuggì di casa per andare a sentire l’Original Dixieland Jazz Band al Reisenweber’s Cafe – e stiamo parlando del padre del jazz bianco, di un jazz già più maturo – e Armstrong nella sua autobiografia dice che l’Original Dixieland Jazz Band era la formazione più straordinaria che lui avesse mai sentito… Credo che sia arrivato il momento di ricontestualizzare La Rocca.



Link di riferimento: sicilyjass.com


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