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Slideshow. Emanuele Sartoris
Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Emanuele Sartoris?
Emanuele Sartoris: Un pianista che cerca di muoversi nella musica con l’obiettivo di avere idee. Per me l’idea è l’elemento portante di tutto: dal comporre fino all’improvvisazione passando per l’insegnamento. Non solo nella musica. Avere idee è ciò che realmente mi fa sentire che sto andando nella direzione giusta dando un contributo a ciò che sto realizzando. In fondo Emanuele Sartoris è semplicemente un sognatore.
JC: Mi racconti ora la tua prima memoria che hai della musica?
ES: Ora che ci penso il primo ricordo che ho è legato alle recite delle elementari dove ci facevano cantare, e a mio fratello che da adolescente anni ’90 ascoltava a tutto volume le cassette in un piccolo stereo in camera mentre studiava. Ricordo che io passavo di lì ed iniziavo a capire cosa potesse piacermi e cosa no. Di certo all’epoca non avrei mai immaginato che la musica sarebbe diventata il mio mestiere.
JC: E quando hai sentito il jazz per la prima volta?
ES: In realtà il primo incontro l’ho avuto con il blues. Un amico di mio fratello aveva una bella discografia riguardante i più grandi chitarristi della tradizione da B.B. King a John Lee Hooker. Una volta per errore ha nominato il film “The Blues brothers” e lì ho capito che quella musica aveva per me qualcosa di irresistibile.
JC: Ma il jazz?
ES: Il passaggio al jazz è stato breve. Stranamente i primi ascolti a cui mi sono appassionato non avevano a che fare con quelle forme di Jazz fortemente permeate dal Blues ma mi sono rivolto immediatamente a Keith Jarrett. I primi dischi che mi hanno colpito sono stati Facing you ed il celebre concerto di Colonia. C’era una libertà espressiva che non avevo mai sentito. Una porta di ingresso.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
ES: Penso in primis la libertà espressiva ed il fatto che se hai un’idea da raccontare o sviluppare lo puoi fare senza alcuna inibizione. Questa istantaneità e genuinità mi ha rapito al punto da voler conoscere il genere in tutti i suoi aspetti, dal mainstream al free. Ci sono artisti con il loro carisma talmente incredibili da avermi fatto venire voglia di capire sapere e studiare. Questo desiderio di conoscere il linguaggio per raccontare è stato determinante. Ed è ancora determinante per proseguire, perché il processo di studio per me rimane pressoché infinito.
JC: E in particolare hai scelto di diventare un pianista jazz?
ES: Guarda, trovo che non saprei suonare altro strumento al di fuori del pianoforte. È talmente semplice ed intuitivo,facendola breve premi un tasto e suona. Ho molti amici e colleghi che suonano strumenti come la chitarra, non puoi immaginare quante volte gli abbia chiesto di capire come funziona. Resta per me ancora oggi un mistero, o meglio mi sembra complicatissimo. Non mi vedrei a suonare altro. La varietà di timbri che si possono ottenere, la tecnica e la secolare tradizione che incorniciano lo strumento mi hanno gradualmente incantato e spinto a conoscere di più, fino a muovermi anche oltre il jazz.
JC: In che senso “oltre”?
ES: In questo caso la musica classica rimane per me l’elemento di ricerca e riferimento che mi spinge ad andare oltre. Ci sono opere di Chopin davanti alle quali bisogna inginocchiarsi senza fiatare come gli studi op.10 ed op.25 dove c’é un senso di ricerca e di innovazione che non possono non affascinare. Questo elemento di ricerca mi lega in maniera indissolubile allo strumento. Credo che sia proprio andata così, mi ci sono avvicinato per caso e semplicemente non saprei suonare altro.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
ES: Vivo il jazz come un genere non finito ed in continua espansione. Non riesco a soffrire chi parla del Jazz come di una musica già esausta che non può andare oltre. È evidente che a dispetto della musica classica si è evoluto e mischiato in maniera repentina con un’infinità di generi, ma proprio per la sua capacità di sopravvivere e di mescolarsi trovo che possa continuare ad evolversi così come ha fatto in passato. A mio avviso bisogna solo guardare oltre e( lo dico ancora una volta) avere Idee. Penso siano le Idee a dare nuova linfa al genere. Così è stato in passato e lo sarà anche per il futuro.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla tua musica jazz?
ES: Per me la musica deve essere necessariamente descrittiva. Sono un grande fan della musica a programma. Ci sono infiniti modi per raccontare e descrivere ed utilizzarli,alle volte anche in maniera non esplicita, mi diverte moltissimo. Credo che il Jazz debba anche avere una funzione di richiamo sullo stato delle cose. Per esempio nel nostro ultimo disco con il contrabbassista Marco Bellafiore ” I suoni del male” si richiama in maniera esplicita l’attenzione sullo stato dell’arte e lo stato degli artisti ad oggi. Ritengo sia difficile essere realmente compresi come artisti oggi esattamente come durante le stagioni di Beaudelaire.
JC: Tra i due dischi che hai fatto a quale sei più affezionato e perché?
ES: Sono ovviamente legato sia a “Here & Now” con The Essence Quartet edito da Emmeproduzioni musicali sia al nuovo “I suoni del male” uscito per la Dodicilune a mio nome. Si tratta di lavori molto differenti.
JC: Parliamo anzitutto del primo.
ES: Si tratta di un reale lavoro collettivo dove ogni componente del gruppo ha messo se stesso ed il fine è risultato comune. Come diciamo spesso, siamo un quartetto senza leader proprio perché cerchiamo un suono di insieme e vogliamo essere insieme anche nel modo di raccontare le storie. Forse però sono più legato alla profondità dei ” Suoni del Male”…
JC: Allora affrontiamo questo secondo?
ES: A sua volta è un lavoro di gruppo con il contrabbassista Marco Bellafiore ma essendo solo in due ha preso la forma del dialogo con un grande scambio: ci sono forme molto complesse con griglie armoniche ingabbianti e sfoghi di improvvisazione totale in completa libertà. Con “I Fiori del male” si vuole mandare un messaggio preciso e probabilmente più ambizioso.
JC: Analizziamo in dettaglio di questi due album?
ES: Molto volentieri. “Here & Now” è una sorta di zibaldone che vuole fotografare lo stato del gruppo ad oggi. Un istantanea, strizza l’occhio anche al ritmo ed al coinvolgimento del pubblico nel senso del divertimento. Ci sono elementi di tradizione come in Bouncin’ e di forme più ampie come in C.A.T. Il disco ha due anime ben amalgamate e rappresentative del gruppo.
JC: Non è forse più intimista il secondo?
ES: “I suoni del male” è un progetto se vogliamo più complesso. Circa un anno fa io e Marco volevamo a tutti i costi suonare insieme nonostante la mole di impegni di ciascuno di noi. Dopo qualche prova abbiamo stabilito che sarebbe stato eccezionale inoltrarci in un progetto originale. Scoprendo la nostra passione comune per l’opera di Baudelaire abbiamo selezionato le poesie che più ci hanno colpito, per altro ne resterebbero moltissime che vorremmo ancora elaborare, e da quì sono nati gli 8 brani originali presenti nel disco. Brani come l’Albatros sono un pò il manifesto dei fiori del male, per noi è stato lo stesso. Ci siamo trovati in completa sintonia con ciò che Baudelaire intendeva esprimere e speriamo in qualche modo di esser riusciti a cogliere l’essenza delle poesie ed averla trasmessa musicalmente.
JC: E invece tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta? Iniziamo con due?
ES: Se proprio dovessi scegliere mi porterei “Now he sings now he sobs” di Chick Corea, un disco che non mi stanco mai di ascoltare ci sono brani geniali come Steps-what was piuttosto che windows. Roy Haynes e Miroslav Vitous sono in stato di grazia, c’è personalità rischio ed una fortissima energia. Amando profondamente la poetica di Bill Evans porterei con me quello che trovo essere il suo testamento musicale, “You must believe in spring”, la malinconia ed il lirismo che lo permeano lo rendono un capolavoro senza pari.
JC: Ce ne sarebbe un terzo?
ES: Un’altro disco a cui sono affezionato perché è il primo di standard che ho sentito e che racchiude un interplay mostruoso tra Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack DeJohnette ed è il mitico “Tokyo 96”. Per concludere non lascerei mai a casa le raccolte con gli studi le ballate ed i notturni di Chopin, trovo lì dentro emozioni fortissime che solo la personalità di un grande senza tempo come Chopin poteva scrivere, oltre al rischio armonico, l’uso geniale del cromatismo e la complessità modernissima delle figure ritmiche irregolari da lui utilizzate.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
ES: Ti ringrazio per questa domanda perché senza i miei maestri non sarei mai arrivato a fare della musica il mio mestiere. Il primo che voglio ricordare è il prete che abitava dall’altro lato della via di casa mia, Don Giuseppe Rosso che per altro, lasciandomi con un grande senso di vuoto, è da poco venuto a mancare. Con grande pazienza per circa 4 anni mi ha insegnato per due volte a settimana a suonare e leggere la musica. Veramente un grande uomo senza il quale di certo non mi sarei avviato su questo percorso. Gli altri che ritengo siano stati non solo maestri di musica ma di vita sono per me anzitutto Daniele Tione, che mi ha insegnato non solo a suonare il piano, ma mi ha spronato anche a mantenere una forte personalità sullo strumento chiedendomi di conoscere sia la storia del pianismo jazz che imparare ad interpretarla a seconda del mio modo di sentirla.
JC: E dopo Tione?
ES: Un vero esempio di vita, che se leggesse queste parole probabilmente scoppierebbe a ridere, è stato per me il trombettista Alberto Mandarini. Vedere la sua preparazione magistrale, il carisma con cui i numerosi allievi lo seguono e ascoltare la sua esperienza personale di musicista e padre di famiglia mi hanno spronato definitivamente ad iscrivermi in conservatorio e prendere un titolo di studio che potesse certificare il mio percorso. Ancora oggi penso che da grande vorrei essere come lui.
JC: Altri jazzisti?
ES: In questo percorso ho trovato altre persone incredibili tra i tanti Furio Di Castri e Giampaolo Casati, altre due persone molto diverse tra loro. Da Furio ho appreso un altro modo di vedere le cose, da Giampaolo la precisione nel curare tutto ciò che riguarda la musica. Chi ancora ha determinato il mio percorso è il pianista e Maestro che mi permetto di definire anche amico e collega Massimiliano Génot. La sua preparazione tecnica magistrale e la pazienza che porta in se la sua persona mi hanno introdotto a conoscere la musica classica, un aiuto enorme sotto il profilo tecnico ed esplorativo, sono onorato di avere con lui un duo in cui riportiamo in auge l’improvvisazione sulle grandi opere di musica classica. L’altra persona ad avermi insegnato molto, senza riserve e fornendomi un grande aiuto per potermi giostrare in questo mondo così complesso è Massimo Barbiero. Nel disco lo ringraziamo come riferimento artistico, ma non è solo questo, la serietà, la filosofia e l’artigianato con cui si accosta alla musica non possono che essere un esempio da cogliere.
JC: E cosa mi dici dei pianisti che ti hanno maggiormente influenzato?
ES: Sicuramente il primo amore è stato Keith Jarrett. La mia mania di completare per intero la sua ampia discografia ha fatto sì che l’abbia ascoltato moltissimo. Chick Corea nei dischi acustici e Bill Evans. Evans rimane ancora un grande riferimento, in lui sento sia il cantato che la ricchezza armonica che lo sfoggio di una tecnica magistrale derivante dagli studi classici. Non posso non citare Herbie Hancock, ho consumato dischi come “Invention & Dimension”. Ma inaspettatamente ad oggi ascolto moltissimi interpreti della tradizione classica. Come già detto Chopin sopra tutti, a seguire Listz e Skrjabin, quì sto ritrovando una ricchezza enorme da cui attingere.
JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
ES: Nonostante abbia già avuto la fortuna di godere di bellissimi momenti e soddisfazioni nella mia carriera, sono certo che il momento più bello dovrà ancora venire. Lo aspetto godendo di quello che ho.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
ES: Ritengo che non si possa separare la persona dal musicista, per questo preferisco collaborare anzitutto con le persone. Difficilmente mi getto in un progetto in cui credo se non mi trovo bene a livello personale con i colleghi con cui suono. Per esempio con Marco Bellafiore la correttezza reciproca, il libero scambio di idee e la collaborazione genuina ci hanno portato spontaneamente alla realizzazione del disco. Con The Essence Quartet è stato lo stesso: la saxofonista Sara Kari ha chiamato Antonio Stizzoli alla batteria, con il quale c’è un grande rapporto di profonda amicizia che perdura da anni, lui ha chiamato me, e io ho chiamato il contrabbassista Dario Scopesi con il quale condivido molto, l’amalgama non poteva far altro che funzionare. Sono album fatti da ottime persone e superbi musicisti.
JC: Come vedi la situazione del jazz oggi in Italia?
ES: Faticosa. Non è facile viverci, bisogna essere molto preparati e professionali, ma nemmeno questo basta. Spesso ciò che vedo intorno a me è la mancanza di immaginazione e voglia di innovare. Intendiamoci, non è semplice nè scontato innovare, ma trovo che mancare di originalità sia uno dei problemi più grandi. A mio avviso non manca il risultato, che è difficilissimo da raggiungere, ma il tentativo.
JC: E più in generale cosa pensi della cultura in Italia?
ES: Personalmente da giovane artista vivo un senso di inutilità e impotenza e vedo che tutta l’arte odierna e la figura dell’artista sono seppellite in questa società. Trovo incredibilmente attuali le parole con cui Beaudelaire apre la raccolta i fiori del male: «Quando per decreto di potenze superiori, Il poeta appare in questo mondo di noia, sua madre spaventata e bestemmiando stringe i pugni a Dio che ne ha pietà.»
JC: Sembrano verso ancor oggi molto attuali…
ES: Infatti ritengo che rispetto a ciò che pensava Baudelaire sullo stato delle cose ad oggi sia cambiato poco. Per me quel poeta è l’artista universale, il musicista, il regista, il pittore, lo scrittore. È difficile essere realmente compresi come artisti oggi, spesso fare Arte viene confuso come la realizzazione di un capriccio, un qualcosa di non necessario perché non materialmente produttivo. Se la cultura non verrà valorizzata e non ci si investirà le conseguenze per il futuro del paese saranno gravissime. Per sopravvivere a questo mondo non si può non investire nella cultura.
JC: Cosa stai elaborando a livello musicale per l’immediato futuro?
ES: Sotto questo aspetto ho moltissimi progetti all’attivo. Ciò che porterò a breve in studio di registrazione è il disco ” I nuovi studi”. Scoprendo che i più grandi pianisti della storia della musica a partire da Bach passando per Beethoven fino a Listz erano non solo grandi compositori ed interpreti, ma anzitutto grandissimi improvvisatori ho compreso che le loro composizioni non sono state solo redatte a tavolino, ma spesso erano cristallizzazioni di parti improvvisate particolarmente ben riuscite. Sono inoltre rimasto molto colpito, come già detto, dalle raccolte di studi di questi grandi. Studi che affrontano svariate difficoltà tecniche ed interpretative raccogliendole in brani magistrali di gradevolissimo ascolto. Nel mio percorso di studio quotidiano, nel mettere in difficoltà la mia mano ho elaborato una personale raccolta di studi che comprendono un elemento mai affrontato in passato: L’improvvisazione. Vorrà essere a sua volta anche una sorta di esorcismo dell’elemento tecnico. Ritengo che il controllo tecnico dello strumento non sia assolutamente tutto, ma che sia fondamentale perché si possa avere un efficiente rapporto tra mente e mano utilissimo all’improvvisazione e alla prontezza sul palco.
JC: E poi?
ES: Questi mesi del 2018 saranno inoltre decisivi per il completamento di un altro grande progetto a cui non vedo l’ora di dare la luce: il manuale di improvvisazione cross-over realizzato a quattro mani con il M° Massimiliano Génot. Lo troviamo una vera innovazione sotto molteplici aspetti, è quasi terminato e non vediamo l’ora di raggiungerne la versione definitiva.
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