Bulbs, il disco di esordio del quartetto Aparticle

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Bulbs, il disco di esordio del quartetto Aparticle

L’ascolto degli Aparticle e di Bulbs, il loro primo disco, suscita reazioni particolari. La proposta del quartetto – formato da Cristiano Arcelli al sax alto, Michele Bonifati alla chitarra, Giulio Stermieri al Fender Rhodes e all’organo Hammond ed Ermanno Baron alla batteria – colpisce immediatamente per la sua forza e la sua originalità, caratteristiche non frequentissime sulla scena jazzistica nazionale. Come tutti i progetti importanti suscita anche diverse domande e curiosità. L’ascoltatore un po’ agé, come l’autore di queste note, sente, ad esempio nelle sette tracce del disco profumi ed echi degli anni ’70. Ne ho parlato con Michele Bonifati, autore delle musiche del disco insieme al tastierista.



Jazz Convention: Come nasce Aparticle?


Michele Bonifati: Giulio Stermieri ed io, modenesi entrambi, amici da sempre, anche prima di diventare colleghi, pensavamo da tempo a un progetto di gruppo jazz non “tradizionale”. Un gruppo di matrice elettrica che concedesse largo spazio all’improvvisazione senza tuttavia trascurare la dimensione progettuale, scritta, della proposta musicale. Volevamo che la scrittura e l’improvvisazione avessero un ruolo non preponderante, ma ugualmente decisivo. Per citare una frase di Giulio, volevamo che la nostra musica fosse costituita da un cento per cento di scrittura e da un cento per cento d’improvvisazione. Abbiamo cominciato a lavorarci nel 2016. Pensavamo a un gruppo aperto, che guardasse all’oggi e al domani, multidirezionale. Per questo abbiamo pensato a Cristiano ed Ermanno. Entrambi sono poliedrici e sanno calarsi in qualsiasi situazione. Sanno suonare mainstream, free e qualsiasi altro tipo di musica. Hanno l’apertura mentale necessaria a un progetto come il nostro. Ne sono diventati parte integrante da subito. Fin dalle prime prove, nel febbraio del 2017, ci siamo sentiti gruppo, progetto. La musica è stata scritta tenendo conto della loro storia e delle loro sensibilità. In effetti, devo dire che non sono solo le nostre concezioni musicali che s’incontrano. Siamo un gruppo a tutti gli effetti, nel quale ognuno porta, molto liberamente, il suo talento e la sua storia.



JC: Ho sentito, nella vostra musica, echi dello spirito libero e creativo che attraversò tutti gli anni settanta….


MB: Non sei il solo a riportarci questa sensazione, ma devo che, almeno programmaticamente, non fa parte delle nostre intenzioni. Certo, ci sono molti elementi timbrici che riportano a quegli anni (le tastiere, l’approccio al suono della chitarra elettrica), ma la scrittura e la prassi esecutiva sono totalmente diverse. Certo, non possiamo prescindere da tutta la musica che ci portiamo dentro. Dal Miles elettrico abbiamo imparato tutti il senso dell’organizzazione musicale anche nelle sequenze improvvisate. Tutti noi abbiamo ascoltato Frank Zappa, Jimi Hendrix e via citando, ma il nostro viaggio musicale guarda all’oggi e al futuro. Quello che c’è stato prima è il nostro bagaglio, non la nostra strada.



JC: Trovo che il pezzo più bello del disco sia Nine Billion Density, che per il suo andamento maestoso e magmatico, mi ha fatto pensare alla prima Liberation Music Orchestra.


MB: Il pezzo si basa un elemento di scrittura molto ridotto. Un breve tema ripetuto varie volte sempre maggiori accumulazioni di suono e dinamiche che lo rendono, alla fine, catartico. Giulio ed io lo sentiamo come un brano di derivazione post rock, con masse sonore tempestose e in continua crescita. L’elemento fondamentale su cui abbiamo lavorato in questa traccia è il suono e le sue possibili stratificazioni. Ogni brano parte da uno spunto, dallo sviluppo d’idee musicali. No Way to Fill è basato sull’uso di tempi dispari, eterodossi. Su questi tempi e sugli scarti ritmici abbiamo giocato una serie d’interazioni fra tema e improvvisazione. Volevamo che il risultato finale fosse tagliente e, allo stesso tempo fluido. Un brano con cui aprire i concerti, una sorta di sigla. In Liquid Language siamo partiti invece da un elemento d’interazione extra musicale. Su proposta di Giulio abbiamo usato una registrazione della voce di Herbert Marcuse (scelta tutt’altro che casuale…). La frase pronunciata dal filosofo è una traccia, un elemento musicale sulla cui metrica abbiamo scritto il riff. All’inizio gli strumenti e la voce costruiscono un tessuto musicale che, via via, si disaggrega e si disperde.



JC: Il brano finale del disco è, invece, una ballad…


MB: Sì, una ballad rock, una canzone vera e propria. Ci sembrava giusto finire il racconto del nostro primo disco con un brano più formalmente strutturato, dopo tante incursioni in territori liberi. Ho usato la parola “racconto” un po’ inconsciamente. La nostra musica non ha in sé ambizioni narrative, ma in effetti raccontiamo qualcosa. Ci muoviamo su territori diversissimi, proponiamo atmosfere sempre cangianti, come in un viaggio. In effetti la dimensione della comunicazione con il pubblico, con chi ci ascolta, è per noi tutti un’esigenza fondamentale. Nessuna sperimentazione può prescindere dal risultato finale, dalla reazione del pubblico e dall’interazione con esso. Oggi forse il pubblico è meno necessario alla musica. La si può ascoltare in qualunque situazione, dal cellulare, dal web o come sottofondo nella quotidianità. Tutto si è forse banalizzato ma il contatto fra l’esecutore e l’ascoltatore rimane fondamentale almeno nel nostro modo di vedere. Tutti e quattro crediamo che la musica possa e debba essere una comunità vera e propria. Mantenerne questa dimensione, oggi forse in crisi, è assolutamente necessario. In questo ci sentiamo, un qualche maniera, figli degli anni Settanta, anni in cui la musica era un fenomeno sociale ed esprimeva una grande dimensione progettuale e una larghissima condivisione.



JC: Aparticle è quindi, per fortuna, un progetto in progress, un libro da cui aspettarsi nuovi capitoli. Due parole su Michele Bonifati? Magari sul tuo primo disco, Another Kind of Bob Dylan, uscito l’anno scorso…


MB: Non mi sarei mai aspettato che la mia prima incisione fosse da solista. Il mi habitat naturale è la musica di gruppo. Per vari motivi ho deciso di elaborare le mie riflessioni musicali su Dylan. L’ho ascoltato molto. Non sono un suo fan in senso stretto. Nella sua immensa produzione non tutto è da salvare . Anche i suoi versi più potenti (ad esempio quelli di Master Of War) sono spesso accompagnati da una musica che è poco più di una nenia. Another Kind è una rilettura “critica” di un personaggio gigantesco e controverso. Una rilettura filtrata attraverso il lavoro che Bill Frisell ha svolto negli anni sull’opera dell’autore di Dylan. È un disco che riascolto ogni tanto come documento della mia evoluzione, e che riassume un periodo di studi e ascolti oggi in qualche maniera superati. Sto anche lavorando, dalla fine del 2015, con Clock’s Pointer Dance, un collettivo più che un gruppo, improntato a una grande libertà espressiva. I brani del nostro repertorio infatti sono stati composti da diversi membri del gruppo, a volte scritti specificamente per questo progetto, altre volte invece riarrangiati collettivamente per adattarli a nuove dinamiche di esecuzione. Siamo un collettivo per genesi perché Paolo Malacarne, Andrea Catagnoli, Andrea Baronchelli, Filippo Sala ed io siamo stati chiamati a rappresentare Clusone Jazz in un festival in Francia come progetto originale di Clusone Jazz. È stato l’allora direttore artistico di Clusone a scegliere la formazione (un quintetto insolito con tre fiati, chitarra elettrica e batteria) e i musicisti. Abbiamo subito cominciato a lavorare in grandissima sintonia, arrivando a pubblicare il nostro primo disco nel 2017 sempre per UR Records (come per Aparticle). 



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