Foto: la copertina del disco
Giampiero Spina e i Beatles. Nothing is real!
Giampiero Spina è l’autore di un bel disco realizzato in quartetto sui Beatles. Prende in esame, sotto la lente del jazz, alcune loro composizioni e le trasforma in un linguaggio più sofisticato senza negare la loro insita cantabilità e melodia. Nothing is real, rinnova il messaggio dei baronetti e lo rendo sempre attuale, anche in un contesto distante dalle fascinazioni pop e di massa. Giampiero Spina in questa intervista ci racconta di come è diventato un jazzista e della sua passione trasversale per i Beatles.
Jazz Convention: Giampiero Spina, tu sei un chitarrista e compositore: come è nata la tua passione per la chitarra e il jazz?
Giampiero Spina: La mia passione per la chitarra è nata molto presto, nella mia famiglia si respirava musica, ed era ovunque! Mi è stata trasmessa da mio padre, grande appassionato e cultore di musica classica oltre che un buon chitarrista, e da mio zio, un bassista che ha militato in diverse band negli anni settanta. Cominciai, quindi, ad osservarli cercando di apprendere il più possibile, e quando finalmente imparai a strimpellare qualche accordo iniziai a suonare rock e pop in diverse improbabili “garage band” adolescenziali. Parallelamente mi dedicai anche allo studio della chitarra classica privatamente. La musica riempiva tutto il mio tempo, più andavo avanti più cresceva la curiosità e la voglia di imparare cose nuove. Il jazz l’ho scoperto quasi per caso, qualche anno più tardi, quando mi resi conto di avere l’esigenza di prendere lezioni di chitarra “moderna” per acquisire tutte quelle nozioni musicali che lo studio della chitarra classica non mi dava. Dopo varie ricerche tra scuole ed insegnanti, ebbi la fortuna di conoscere Massimo Minardi che mi fece scoprire questo nuovo mondo musicale, il Jazz!
JC: Quali sono i tuoi maestri, quelli che ti hanno folgorato e spinto a diventare un chitarrista di jazz?
GS: Massimo Minardi mi passò un nastro con una compilation jazz (si parla dell’epoca delle audiocassette), che ascoltavo di continuo. Tra i brani era presente una versione strepitosa di Night and day suonata dall’immenso Joe Pass che mi folgorò completamente, da lì è cominciato tutto! I miei Maestri e punti di riferimento sono davvero tanti, quasi tutti i grandi della tradizione jazzistica, i veri ed unici caposcuola della musica afro-americana. Quelli che ho studiato, approfondito e ascoltato di più sono stati Wes Montgomery, Jim Hall, Charlie Parker, Pat Metheny e Thelonius Monk. All’epoca non esisteva internet, tanto meno i tutorial on line (cosa che non disprezzo affatto), quindi non rimaneva che cercare di trascrivere alla meno peggio i loro grandi assoli o le loro composizioni consumando decine e decine di audiocassette: Play! Stop! Rewind! e a volte, accidentalmente, Rec! Ancora oggi ricordo a memoria alcuni degli assoli trascritti e mi convinco del fatto che l’ascolto attento rappresenti il metodo migliore per imparare un linguaggio. Tornando ai grandi Maestri, mi piace ricordare gli incontri avuti con Pat Martino, in occasione di una indimenticabile lezione privata, e Frank Gambale durante un master class tenuta nella Scuola civica di Cinisello Balsamo, dove tuttora insegno. Per me si è trattato di incontri edificanti, totali, capaci di cambiare la percezione della musica e volte anche della vita.
JC: Le tue influenze sono solo jazz o vengono anche dal blues e dal funk?
GS: Ascolto assiduamente jazz da quando avevo 17 anni, pressappoco da quando capii che mi sarebbe piaciuto imparare a suonare questa musica. È un tipo di linguaggio che presenta varie difficolta e molti step da superare a cui va dedicato molto studio e tanta passione. Comunque amo ascoltare davvero di tutto soprattutto la musica classica, ma anche il rock o gruppi quali, ad esempio, i Beatles. In generale, ritengo che ogni stile o genere musicale abbia delle peculiarità ben precise che vanno rispettate. Durante i primi anni, quando ero ancora uno studente neofita del jazz, ho fatto esperienze in moltissime band che suonavano rock/pop, blues, funk, reggae e addirittura liscio, ed in qualche modo ognuna di esse mi è rimasta un po’ appiccicata, il che, per alcuni versi, può essere abbastanza utile, se si ha interesse a mescolare e far confluire diversi stili nel linguaggio jazzistico.
JC: Parlaci della tua prima incisione e del tuo primo disco da leader?
GS: Il mio primo disco risale al 2001, Storie dal castello magico, prodotto dalla Music Center di Alessio Brocca, che è l’editore e il produttore di quasi tutti i miei CD. All’epoca avevo un trio con due grandi amici e musicisti di talento, il batterista Donato Tarallo e il Bassista Beppe La Palorcia, con i quali ho condiviso alcuni dei momenti più belli della mia esperienza musicale e umana. Provavamo e sperimentavamo in continuazione; dopo un paio d’anni decidemmo di incidere del materiale che avevamo suonato dal vivo. Devo riconoscere che il disco mi piace ancora molto, ci sono una serie di mie composizioni che riascolto volentieri ancora oggi. Forse in alcuni momenti suona un po’ ingenuo e un tantino psichedelico (in quel periodo mi piaceva usare l’effettistica e un sacco di cose bizzarre), ma come prima incisione non mi posso davvero lamentare, rimane un buon prodotto. Generalmente, quando finisco un lavoro discografico tendo a non ripensarlo più, anche perché, il più delle volte, ne ho già in mente un altro. Per quanto mi riguarda, vedo un’incisione discografica come un’istantanea del momento musicale che si sta vivendo.
JC: Tu sei leader di diversi progetti e suoni anche in quelli di altri musicisti. Ce ne puoi parlare?
GS: Fino ad ora ho inciso cinque dischi a mio nome che contengono mie composizioni, standard jazz e rivisitazioni di colonne sonore e di brani del repertorio pop-rock, ai quali hanno collaborato musicisti quali Antonio Zambrini, Max De Aloe, Ferdinando Faraò, Giovanni Falzone, Massimo Pintori, Tito Mangialajo, Tony Arco, Roberto Piccolo e Tullio Ricci. Uno dei progetti a cui tengo molto è il nuovo quartetto, a cui prende parte il vibrafonista Luca Gusella, con cui eseguo composizioni originali basate su metriche irregolari e cambi di tempo inusuali, molto impegnativo ma stimolante. Riguardo, invece, alle mie partecipazioni in progetti e registrazioni capitanati da altri musicisti cito quelli di: Massimo Minardi Sextet, Antonello Monni “Porpora”, Beppe Aliprandi “More Duke”, Michele Franzini “My Smooth corner”, Ezio Allevi “El Sueno” e Beppe Caruso “Caos”. Faccio, altresì, parte dell’Artchipel Orchestra e della Monday Orchestra con le quali ho inciso alcuni dischi e partecipato a numerosi festival Jazz affiancando musicisti di levatura internazionale come Bob Mintzer, Keith Tippet, Mike Mainieri, Chris Cuttler, Randy Brecker, Karl Berger e Mike Westbrock. In passato ho anche arrangiato e diretto la Day Off Big Band composta da musicisti dell’area jazz milanese, che un giorno non mi dispiacerebbe rimettere in piedi. Mi piace molto arrangiare, e questo mi è stato anche riconosciuto in occasione di alcuni concorsi internazionali per compositori e arrangiatori a cui ho partecipato, ed ho davvero tanto materiale…
JC: Il tuo ultimo lavoro si chiama Nothing is Real e si ispira ai Beatles. Come è nata l’idea di fare un disco su di loro? E, per di più, in jazz…
GS: “Nothings is real” è una frase contenuta in una famosa canzone dell’epoca psichedelica dei Beatles, Strawberry fields forever, canzone che ho sempre amato tantissimo. L’idea di fare un disco sui Beatles è nata dalla mia profonda passione per questa band; avevo nel cassetto, già da molto tempo, diversi brani riarrangiati ed era giunto il momento di registrarli. Mi ha sempre affascinato sperimentare diversi generi musicali per farli confluire nel linguaggio jazz, forse per via di tutte le esperienze musicali che ho vissuto, anche se non bisogna dimenticare che i brani della tradizione jazzistica sono quelli con cui un musicista, che decide di dedicarsi a questo genere, deve misurarsi in continuazione.
JC: Che criterio avete usato per scegliere gli otto brani presenti nel disco, da Come Together a I’m Looking Through You?
GS: La scelta dei brani, da un certo punto di vista, non è poi cosi difficile per via delle straordinarie melodie che hanno composto Lennon, McCartney ed Harrison. Molti jazzisti del passato e del presente si sono cimentati con queste grandi composizioni; certo, quando si affronta un gruppo epocale come questo qualche rischio si corre sempre, in fin dei conti fa parte del gioco, ma la soddisfazione più bella è arrivata proprio dai vari fun club italiani dei Beatles che hanno davvero apprezzato il lavoro e lo stanno pubblicizzando molto.
JC: Il disco è in quartetto: perché hai deciso una simile formazione e non optare per un trio o un gruppo più allargato?
GS: Quasi tutti i miei progetti e lavori discografici sono concepiti per il trio chitarra, basso e batteria, formazione a me congeniale perché mi da spazio per approfondire la musica dal punto di vista non solo melodico ma anche armonico. In questo caso ho voluto inserire anche il pianoforte per raggiungere un sound che ritenevo più adatto per sviluppare ed esaltare le melodie dei Beatles.
JC: Ci parli dei partner che hai scelto per questo tuo progetto..
GS: I partener sono stati scelti sulla base dell’idea che avevo in mente per questo progetto, e avevo quindi bisogno di una solida sezione ritmica con sound molto jazzistico ma, allo stesso tempo, adatta ad incursioni in sonorità blues e funky. Ho quindi invitato a partecipare al progetto il batterista Tony Arco, il contrabbassista Roberto Piccolo e il pianista Alberto Tafuri, il quale ha anche contribuito ad alcuni arrangiamenti.
JC: Nothing is Real è un disco che suonato dal vivo dovrebbe funzionare molto bene visto il tema e il tipo di pubblico che si può abbracciare…
GS: Si, posso confermare che, sino ad ora, ogni concerto è stato un sold out! Dal vivo, questo progetto, funziona molto bene perché, a mio avviso, è ben concepito e suonato con vera passione da parte di tutti i componenti del quartetto. Il pubblico, che è il vero giudice, ha sempre partecipato con entusiasmo e coinvolgimento, e questo ci dà grande soddisfazione e voglia di condividerlo ancora con tanti appassionati del jazz e dei Beatles.
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