Giovanni Guidi “Rebel” Quintet. Rebel Songs

Foto: Archivio Fabio Ciminiera










Giovanni Guidi “Rebel” Quintet. Rebel Songs

Reggio Emilia (Teatro Ariosto). Festival Aperto – 6.10.2018

Giovanni Guidi: pianoforte, Fender Rhodes

Daniele Tittarelli: sax

Daniele Di Bonaventura: bandoneon

Joe Rehmer: contrabbasso

João Lobo: batteria

D’accordo. La musica vive in una sua dimensione autonoma; trascende spesso le intenzioni e i programmi dei suoi stessi protagonisti. Andrebbe giudicata solo per i suoi risultati intrinseci.


Tuttavia, se il compito di un progetto, come quello che è andato in scena all’Ariosto di Reggio Emilia, è rendere omaggio alla tradizione della canzone rivoluzionaria appare evidente che il recensore, e l’ascoltatore, si pongano anche problemi non strettamente legati alla qualità dell’esecuzione.


Il quintetto ha suonato molto bene, senza retorica e senza effettacci. Sarebbe stato facile cadere in tale tentazione, con queste musiche di strada, di lotta, ricche di emotività e che hanno avuto tanta parte nella vicenda umana di milioni di persone Ha avvolto il materiale proposto ( Da Fischia il vento alla Ballata dei morti Reggio Emilia, da Hasta Siempre a Bandiera Rossa, da l’Internazionale a El Quinto Regimiento) in una sorta di still live musicale. Erano note che riemergevano da una memoria profonda quelle suonate sul palco. Evocavano lontananze. A un certo punto il piano solo del leader ha richiamato il tema di Bandiera Rossa e l’ha fatto risuonare come fosse un carillon, ricoprendolo di una patina quasi gozzaniana. Probabilmente non era questa l’intenzione di Guidi ma qualche sessantottino presente in sala deve aver provato questa sensazione straniante. D’altronde è sempre molto difficile interpretare questi inni, queste canzoni di lotta (musicalmente non straordinarie), senza l’utilizzo della parola, del testo. Il tutto alla fine è apparso decontestualizzato, immerso in una sorta di malinconia atemporale. E più che il glorioso disco della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden, del 1969, il primo a immergere in una rovente atmosfera free una certa innografia rivoluzionaria, soprattutto spagnola, allo spettatore veniva in mente una frase di Proust sulla canzone popolare. «Il suo posto, nullo nella storia dell’arte è immenso nella storia sentimentale della società. Uno spartito di cattive canzoni (…) deve commuoverci come un cimitero e un villaggio. Che importa se le case non hanno stile, se le tombe scompaiono sotto le iscrizioni e gli ornamenti sono di pessimo gusto. Da quella polvere può alzarsi… la nuvola delle anime con ancora in bocca il verde (rosso, N.d.A.) sogno che faceva loro intuire (un) altro mondo…»


Il pubblico alla fine ha, giustamente, applaudito a lungo. La musica ascoltata, arrangiata benissimo da Daniele Di Bonaventura ha creato comunque un’atmosfera densa di saudades rivoluzionarie. In tempi come questi, di sogni avari e stentati, non è stato un risultato da poco.




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