Mad Chaman – 2018
André Manoukian: pianoforte
Hervé Gourdikian: sax soprano
Özer Arkun, Guillaume Latil: violoncello
Christophe Wallemme: basso
Kevan Chemirani, Naghib Shanbehzadeh, Youssef Hbeish: percussioni
Pierre Alain Tocanier, Nicolas Viccaro: batteria
Lena Chamamyan: voce
Pianista e fantasista d’intuitive ascendenze armene, André Manoukian si è concesso più di cinque anni (di cui quattro dedicati a “viaggi e riscoperte delle radici”) per pervenire ad una nuova esperienza discografica, rispetto alla precedente e diversamente umorale Melanchology, ora esponendo ben maggior colore e apertura a linguaggi tradizionali.
A ciò l’Autore tende provvedendo il ben abitato Apatride di un’assortita line-up, arruolando tra gli altri uno sperimentato mestierante del sax quale Hervé Gourdikian, talenti di differente classe tra cui il violoncellista turco Özer Arkun, oltre ad un set di percussionisti d’area iranica (non mancando nella sostanza di riconoscere gli ampi tributi e prestiti del linguaggio musicale armeno nei rispetti delle grandi nazioni viciniori), coinvolgendo in ultimo la cantante sirio-armena Lena Chamamyan (in un episodio di forte contaminazione in cui si potrà pensare per analogia al mondo dei grandi sincretisti alla Nitin Sawhney).
Colorite energie e profondo senso della danza, veicolate da un forte istinto condivisionale, aprono il fianco ad un certo grado di banalizzazione dei materiali (che attingono in più episodi ai non irreprensibili esiti di un certo Corea nei suoi recuperi ispanici), ma i medesimi non sono esenti dal fornire esiti di maggior rigore – in cui non ci dichiareremmo distanti da certi festosi passaggi dell’abitualmente più filologico Tigran Hamasyan (riferimento pressoché inevitabile per disciplina e implicazioni dedicatarie).
Molto colore (e parecchio rumore) non certo per nulla, ma non siamo certi di voler associarci alla miracolistica enfasi con cui il lavoro è stato salutato almeno oltralpe: l’onesta, argomentata e solida fusion proposta dal Nostro, potrà aspirare a lasciare propri segni nel caleidoscopico mondo della contaminazione, non attingendo nei fatti a status di pietra miliare, ma almeno la versatilità (e spesso diremmo la disinvoltura) con cui il Nostro esplicita il cangiante trattamento dei materiali delle allargate radici è certo un più che apprezzabile contributo alle neglette cultura e identità musicale d’Armenia, e a proprio modo segna una presenza quale motivato esponente della mescolanza contemporanea.
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