PDM Records – MPR 097CD – 2018
Franco D’Andrea: pianoforte
Andrea Ayassot: sax alto, sax soprano
Daniele D’Agaro: clarinetto
Mauro Ottolini: trombone
Enrico Terragnoli: chitarra
Aldo Mella: contrabbasso
Zeno De Rossi: batteria
Luca Roccatagliati: electronics
Intervals II può essere inteso come il seguito del disco, omonimo, precedente. Un seguito, con gli stessi musicisti, che custodisce in sé alcune differenze. I brani sono stati registrati durante le prove per il concerto che si doveva tenere il 21 di marzo 2017 al Parco della Musica di Roma.
È evidente che la musica di Intervals II si basa su un rigore e una strutturazione diverse rispetto al disco precedente registrato dal vivo. Qui l’intervallo è preso in esame e sviscerato in tutte le sue forme e combinazioni. C’è un esame attento e logaritmico che ne analizza ogni sequenza e ne amplifica all’eccesso ogni potenzialità. La sintesi tra strumenti acustici ed elettronici trova il suo apice a tal punto che i diversi elementi si assorbono a vicenda diventando altro, e cioè un suono nuovo dalla timbrica propria ed originale. Il sistema intervallare è solo un punto di riferimento, per nulla rigido, su cui improvvisare in piena libertà partendo anche da una semplice cellula sonora, un battito di tamburo o un abbozzo d’accordo al piano (Traditions N. 2), che genera poi un afflato collettivo dove il suono diventa il metro di misura, il raggiungimento del fine ultimo. Intervals II, come il precedente, richiede un attento ascolto e disanima, non tanto per la sua complessità, ma per il carattere assolutamente originale della materia da cui è composto. Contiene una tale ricchezza di informazioni che si ha bisogno di incasellare ogni singola nota per catturarne l’origine e la provenienza. Si perché D’Andrea si muove su queste due dimensioni parallele poggiandovi la sua navicella che va vanti indietro come se fosse una macchina del tempo che fa balzi non casuali, ma sistemici e storicamente ben precisi. Nello stesso momento ti lascia immaginare uno scenario da anni venti per poi subito dopo oscurarlo da un uranico pattern elettrico o da un’informe sciabolata di chitarra (Monodic). Terragnoli recita la parte del battitore libero, o anche guastatore, con i suoi interventi laceranti o di abulica ortodossia chitarristica (Intervals 5). Non si parla di lui come un corpo a parte ma di un organismo aggiunto, bionico, che amplifica e rende futuribili alcuni suoni e timbri contribuendo con DJ Rocca a rendere questa formazione più astrale e moderna di come sarebbe potuta diventare l’Arkestra di Sun Ra, spogliata delle sue scenografie nubiane.
La band si regge su un battito cardiaco lineare e pieno, che da l’idea di un essere di grandi dimensioni agile e forte. D’Andrea riprende l’idea dei due contrabbassi, già sperimentata in passato, solo che uno viene rimpiazzato dal turntable e dagli effetti di DJ Rocca, che fa anche il paio ritmico, oltre che timbrico, con la batteria di De Rossi. L’intuizione del pianista è geniale, sostituire e sintetizzare esperienze passate, doppio contrabbasso e percussioni, con un elemento moderno, DJ Rocca, dal suono artificiale che assomma entrambe le funzioni. D’Andrea media tra passato e presente restituendo al suono ampiezza e sostanza, nonché una moderna diversità che lo tiene agganciato al futuro piuttosto che al passato. È la stessa logica che lo porta ad usare il jungle sound ellingtoniano in una chiave avveniristica, dove il trombone e il clarinetto provano a risucchiare indietro il suono ma il resto della band lo spinge in avanti a colpi di improvvisata creatività e clangore metallico. Mella a volte ricorda il Garrison di A Love Supreme con quel suono fermo e chiodato, dal beat primordiale, che pulsa ma allo stesso tempo tiene in riga e fa da porto sicuro alla prorompente creatività dei suoi colleghi; mentre Ayassot, alle prese con alto e soprano, si destreggia con un suono minimale, quasi sussurrato, che lo stacca dalla carnalità materica del trombone e dalla sensualità del clarinetto, per farsi etereo, impalpabile, dalla natura avventurosa e iperuranica. D’Andrea, estremizzando e mixando il suono, non fa altro che allungare l’ottetto così da dare l’impressione di dirigere una big band ecclettica ed elastica nelle sue forme espressive (Afro Abstraction). Anche una ballad come Slow Five – rarità nel repertorio di D’Andrea -, giocata su un finto mainstream, subisce un trattamento “orchestrale”. I fiati, compenetrandosi, sembrano allungarsi, tingersi di più colori conservando creatività e spontaneità.
Come Joyce, D’Andrea si affida a un torrenziale flusso di coscienza, o creatività, per raccontare il suo jazz. La pratica intervallare è un espediente per scardinare il presente, riformulare il passato e immaginare il futuro.
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