Antonio Cocomazzi, Mario Marzi. Restart

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Antonio Cocomazzi, Mario Marzi. Restart

Antonio Cocomazzi: pianoforte

Mario Marzi: sax baritono, sax soprano

Si parla molto di musiche di confine, di steccati da abbattere. A volte si finisce, addirittura, per cadere nei luoghi comuni. Eppure la questione non è di poco conto. Su questi confini divelti, o da ritracciare si gioca, piaccia o no la credibilità della musica futura, la sua capacità di coinvolgere il pubblico, di non scadere nel già sentito o in uno sperimentalismo sterile e autocontemplativo. Per questo ogni disco di musicisti classici che cerchi di uscire dal terreno dell’accademia è il benvenuto. Tanto più se restituisce all’ascoltatore il gusto della ricerca, dell’originalità e una certa piacevolezza (che non è affatto una brutta parola). È questo il caso di questo bellissimo Restart, che vede suonare due musicisti di grande esperienza e cultura musicale accademica (entrambi sono docenti di Conservatorio).



Ho chiesto al pianista (che è anche il compositore delle undici tracce) di raccontarmi qualcosa della sua esperienza di artista crossover e del suo rapporto con il jazz, al quale ha già dedicato altre incisioni.



Jazz Convention: Per decenni è invalsa una mentalità, una specie di senso comune, che erigeva steccati e scavava fossi fra i due mondi, quello classico e quello jazzistico o pop? Credi che questa mentalità sia superata o continua a vivere in una certa accademia o in un pubblico un po’ pigro?


Antonio Cocomazzi: Sicuramente rispetto al passato questa dicotomia si è ridotta notevolmente anche grazie all’attività di molti compositori che sono riusciti a fondere anche sommariamente le sonorità di questi due mondi musicali opposti creando delle musiche borderline. Anch’io nel mio piccolo, provenendo da studi classici ma fortemente attratto dalle contaminazioni presenti nel jazz, sin da ragazzo ho composto musica al confine tra classica e jazz, definita spesso così da esimi Maestri o critici del settore. Ovviamente parlo generalmente, perché, come ben dici, abbiamo ancora una buona fetta di sostenitori dello “steccato”!



JC: Già che siamo in tema, chi sono i tuoi “idoli” in campo jazzistico e/o pop-rock?


AC: In cima alla piramide metterei Pat Metheny (di cui ho quasi tutta la discografia) che mi ha influenzato molto da ragazzo. Infatti, la sua Musica, soprattutto quella prodotta con il Pat Metheny Group è stata una fonte inesauribile d’ispirazione per me, così come lo è stato il pianista Lyle Mays, a cui ho anche dedicato una composizione, “Lyle”, nel 1997. Questi due mostri sacri è come se mi avessero “formato” musicalmente, imparando molto da loro. Sono stato sempre attratto dalle contaminazioni, dalla musica fusion in particolare: altri musicisti importanti sono stati Chick Corea con la Elektric Band e tutti i musicisti che ruotavano in quell’ambiente come John Patitucci e Dave Weckl; poi ancora il pianismo di Keith Jarrett e tanti altri “grandi” tra cui Michael Brecker. Nel pop-rock ho delle preferenze, non un “idolo” in particolare come in campo jazzistico: citerei i Pink Floyd, i Chicago degli anni ‘60/70, parte della produzione dei Beatles, Sting e nella musica italiana, uno su tutti Pino Daniele fino ai primi anni 90.



JC: Diversi strumentisti classici dicono che le sale da concerto rischiano di svuotarsi: secondo loro i repertori andrebbero rinnovati. Anche il jazz si pone questo interrogativo. Tu cosa ne pensi?


AC: Se c’è questa necessità, sono gli stessi strumentisti che dovrebbero avere il coraggio di proporre programmi più audaci e meno accademici in entrambi i campi e cercare di persuadere gli operatori musicali in tal senso. Musica di qualità e innovativa, cioè scritta bene e con anche linguaggi che abbracciano varie identità musicali, ce n’è in giro, bisogna solamente proporla in maniera tale da coinvolgere ed appassionare il pubblico.



JC: Secondo te le avanguardie del ‘900, gli sperimentatori hanno giovato alla musica “classica” o il loro è stato un semplice arroccarsi nella fin troppo celebre torre d’avorio. Si può scrivere ed eseguire musica prescindendo dall’ascoltabilità, dal coinvolgimento del pubblico?


AC: Secondo il mio modesto pensiero, la musica troppo cervellotica, scritta a tavolino o alla ricerca spasmodica delle risorse timbriche degli strumenti, coinvolge poco il pubblico perché appunto prescinde dall’essere ascoltabile. Pertanto gli sperimentatori del secolo scorso hanno scritto una pagina della storia della Musica classica contemporanea, producendo Musica “inconcepibile” ai più, non agli esperti del settore, provocando l’allontanamento del pubblico dalle sale, questo è indiscutibile, limitandolo a ben pochi eletti. Certo che si può scrivere Musica infischiandosene del coinvolgimento del pubblico e ci sono compositori che lo fanno! Personalmente sono lontanissimo da quel Mondo, scrivo Musica cercando sempre di trovare il giusto equilibrio tra ritmo, armonia e melodia, coinvolgendo me stesso e soprattutto con l’intento di coinvolgere chi ascolta. Tento, con tutti i miei limiti, di far vibrare l’animo altrui, poiché quello che scrivo non è altro che pura espressione di sentimenti.



JC: Già che ci siamo sarebbe interessante anche un tuo giudizio sul minimalismo americano.


AC: È un linguaggio musicale che ha inciso molto nel panorama musicale contemporaneo. È interessante la destrutturazione della scrittura musicale che si è voluta mettere in atto, volta ad una semplicità ed immediatezza che potesse condurre ad un più facile ascolto, in contrapposizione alla musica d’avanguardia o similare. Quando queste prerogative sono state o sono ben messe in campo, hanno prodotto dei bei risultati, altrimenti la ripetizione ossessiva ed ipnotica di cellule ritmico – melodiche quasi fine a se stesse, non le trovo, sempre per quanto mi riguarda, entusiasmanti e coinvolgenti.



JC: Restart ha forti profumi melodici. Qualcuno direbbe che suona “italiano”. Che cosa pensi delle recenti polemiche sull’italianità della musica e sulle “quote tricolore”


AC: Non solo Restart ma anche tutti i miei precedenti dischi hanno forti profumi melodici. Un aspetto melodico che cerco, mai scontato e banale, sforzandomi di assecondarlo con una condotta armonica il più possibile interessante e intrigante. Non so se poi, in realtà, la sfera musicale di Restart suoni effettivamente italiano. Comunque rispondendo alla domanda, penso che già altri paesi europei adottino le cosiddette quote nazionali. Forse anche nel nostro Paese non sarebbe male dare un po’ più di spazio alla tantissima musica interessante italiana che viene prodotta in molteplici linguaggi musicali.



JC: Qualcuno mi ha detto che se Bach vivesse oggi creerebbe capolavori con la musica elettronica. Che rapporto hai con le strumentazioni digitali? Possono veramente aiutare la creatività. Non mi sembra che tu ne faccia gran uso.


AC: Non ho un gran rapporto con le strumentazioni digitali, sono un compositore abbastanza tradizionale, poiché scrivo da sempre per disparate formazioni cameristiche, ensemble e orchestra e di solito dal vivo suono sempre in formazioni acustiche. Pertanto non ne avrei bisogno ma non nego quanto sia importante avvalersene, specialmente in certi mondi come quello cinematografico. E senz’altro possono stimolare la creatività e dare quel tocco in più, ottimizzando il lavoro.



JC: Last but not least. Che rapporto hai con la pratica dell’improvvisazione?


AC: Familiare. Ogniqualvolta mi siedo al pianoforte, improvviso. A modo mio, non sono un jazzista, non ho mai studiato jazz ma mi piace improvvisare seguendo il mio istinto, partendo da costruzioni armoniche della musica classica fino a giungere ad armonie jazzistiche suonando in maniera impulsiva; da questo mio costruire spesso nasce un’idea che impiego nelle mie composizioni e che probabilmente ne fanno il mio tratto distintivo. È una sorta anche di esercizio tecnico per tenersi in allenamento sulla tastiera, suono liberamente, mi disintossico e mi assento.



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