Foto: Gentile concessione dell’Ufficio Stampa dell’artista
Filippo Arlia. Reinventare la musica in modo intelligente
Filippo Arlia è un personaggio eclettico ed interessante. Lanciato in una carriera accademica e concertistica fulminea e ricca di riconoscimenti, Arlia è un musicista attento alle tante sfaccettature della musica di oggi e sempre pronto a cercare possibili ponti per mettere in contatto mondi musicali diversi.
Jazz Convention: Partiamo dagli aspetti accademici. Successo e riconoscimento per il suo lavoro sono arrivati sin dai primi passi: dai concerti nelle sale più prestigiose alla direzione di un Conservatorio. Quali sono stati i passaggi più importanti della sua carriera finora?
Filippo Arlia: Credo che i passaggi più importanti siano stati nei teatri più prestigiosi in cui ho lavorato, come la Carnegie Hall di New York, l’Auditorio Nacional de Madrid, la Cairo Opera House o la Novaya Opera a Mosca: sono esperienze che ti fanno crescere come uomo e come artista. E poi, senza dubbio, salire sul palcoscenico con certi artisti al proprio fianco, come Michel Camilo, Sergei Krylov o Stefano Bollani: anche queste sono esperienze che mi hanno segnato e hanno cambiato il mio modo di vedere la performance.
JC: Un percorso fulmineo, “alimentato” da studio e passione. Cosa la attrae nella musica, nella prima lettura di una partitura, nella prima prova insieme all’orchestra e agli altri musicisti?
FA: Mi attrae l’energia che una composizione può sprigionare. In quel momento, credo che il mio compito sia portare alla luce il cuore pulsante del compositore e, per farlo, bisogna trascendere dalle note. È un’alchimia straordinaria che si crea solo durante il concerto ed è molto difficile, se non impossibile, spiegarla a parole.
JC: Il recente concerto con Stefano Bollani oppure un lavoro portato avanti nel tempo come Duettango, testimoniano la sua intenzione di andare alla ricerca di altre strade: come sono nati questi e gli altri progetti “non accademici”? Quali sono le linee guida che mette al centro di lavori di questo genere?
FA: Da quando ero bambino, sono sempre stato interessato a scoprire dei mondi diversi dal mio. Per uno come me, praticamente cresciuto per otto ore al giorno sui Preludi e Fuga di Bach, non è stato facile guardarsi intorno e capire la strada giusta. Però, lavorare un artista del calibro di Stefano Bollani mi ha fatto capire che la classica e il jazz hanno tanto in comune. Per quanto riguarda Duettango, quando mi siedo al pianoforte la musica di Piazzolla riesce a darmi un senso di libertà che nessun altro genere musicale riesce a darmi.
JC: Il suo percorso sembra dimostrare ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che formazione e carriera classica e curiosità rivolta in ogni direzione musicale possono senz’altro convivere. Come si costruisce giorno dopo giorno un percorso simile?
FA: Secondo me, con la curiosità. Il musicista classico spesso si ferma di fronte alla pagina scritta, senza considerare che quando cambiano le mode, gli usi e i costumi, cambia anche la maniera di ascoltare la musica. Io ho una profonda stima per tutti gli amanti del barocco, ma non possiamo pretendere che i giovani ascoltino la musica nello stesso modo in cui si faceva quattro secoli fa. Oggi, la commistione tra generi può essere una soluzione intelligente per riportare la musica al centro dell’attenzione sociale.
JC: La musica cambia ed evolve in continuazione, nonostante la sterile intenzione dei puristi di conservare principi che i grandi artisti non hanno mai rispettato nelle loro creazioni. Qual è il suo punto di vista sulle trasformazioni nel mondo musicale di oggi? Sia dal punto di vista dei linguaggi che delle tecnologie che portano la musica ai singoli fruitori…
FA: Bach è stato il primo jazzista della storia, e questo si capisce in tutti i suoi scritti. Il sincopato e l’armonia bachiana sono chiaramente antenati del jazz moderno, ma i puristi non vogliono accettarlo. Credo che la trasformazione del mondo musicale sia una cosa inevitabile. Tra duecento anni, saremo evoluti in maniera ancora diversa e questo non è affatto negativo. Il mio motto è: la musica classica non ha bisogno di conservarsi, bensì di reinventarsi in modo intelligente.
JC: Nel suo lavoro, è sicuramente presente anche l’aspetto divulgativo: cosa occorre oggi per rinnovare e appassionare il pubblico a seguire i concerti e a non vivere la musica come esperienza museale?
FA: Mi dispiace essere così “crudo”, ma per evitare che la musica diventi un’esperienza museale, c’è bisogno di tenere i puristi lontano dalle sale da concerto. Recentemente, un collega tedesco mi ha detto che non posso dirigere Beethoven se suono Piazzolla: sto cercando una giustificazione a questa sciocchezza ma non riesco a trovarla. Certi stereotipi che il vecchio continente ha creato dal Seicento devono essere superati, se vogliamo evitare che la musica continui ad appassionare il pubblico. A modo loro, i grandi musicisti del passato sono stati estremamente attuali.
JC: Gli incontri dal vivo, nei prossimi concerti, la porteranno a suonare con Danilo Rea, Giovanni Sollima, la Jerusalem Symphony Orchestra: tre occasioni per far capire come la musica abbia la capacità di superare ogni tipo di linguaggio se si sceglie di confrontarsi con l’altro.
FA: La Jerusalem Symphony è una delle compagini più prestigiose al mondo, per me sarà senza dubbio un onore lavorare con loro. Giovanni Sollima e Danilo Rea sono proprio l’esempio di come il linguaggio della musica sia universale, perchè sono artisti poliedrici e in grado di fare ogni tipo di genere ad alti livelli: quando l’idea è vincente, la musica non ha bisogno di barriere nè di regole per venire fuori.
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