Rosario Di Rosa al “crocevia” della sua ricerca musicale

Foto: la copertina del disco










Rosario Di Rosa al “crocevia” della sua ricerca musicale

Crossroads Blues è il disco crocevia di Rosario Di Rosa, musicista inquieto e ricercatore impenitente. Esso rappresenta un unicum nel panorama musicale italiano perché ingloba diversi stili e generi. Contiene in sé passato e futuro, mentre il presente è relegato al momento dell’ascolto e alle sensazioni e reazioni che crea in ognuno di noi. Qui non ci sono diavoli e umani come in Robert Johnson, ma psiche, diagrammi e scatole algebriche. Le sue parole ci aiuteranno a comprendere un disco che già di per sé è un capolavoro nel suo genere. Buona lettura e buon ascolto.




Jazz Convention: Se mi passi il parallelismo, Crossroads Blues sta alla musica come Tarkowskij e un evoluto Matrix al cinema? Quale è la tua opinione?


Rosario Di Rosa: Innanzitutto ti ringrazio molto per l’accostamento con questi grandi capolavori cinematografici che hanno cambiato, credo in modo irreversibile, il modo di immaginare e di pensare al futuro così come al presente. È un parallelismo che mi sorprende non poco perché in realtà in Crossroad Blues non vi è alcuna volontà da parte mia di creare qualcosa di futuristico. L’intento che mi ha portato al concepimento di questo lavoro è stato esclusivamente introspettivo. Da diversi anni a questa parte la mia direzione compositiva e strumentale è volta alla possibile costruzione di un linguaggio musicale personale che possa rappresentarmi appieno, una sorta di contenitore unico in cui poter concentrare tutto quello che racconta di me, le mie influenze, i miei punti di forza e le mie debolezze. Pertanto considero questo disco forse l’apice attuale di un processo di “ricerca di profondità” portata avanti nell’accezione più contemporanea possibile.



JC: Crossroads Blues è uno spartiacque nella tua carriera di musicista. Sei partito dal jazz, lo hai contaminato; ti sei spostato verso il contemporaneo e ora sei approdato al futuro, evolvendo e mixando un linguaggio globale a cui aveva dato inizio Zawinul diversi anni fa dal versante fusion….


RDR: Più che uno spartiacque lo definirei come una logica conseguenza di un percorso ben lungi dall’esaurirsi e cominciato qualche anno fa col disco in trio “Pop Corn Reflections” (2015). Quel progetto, seppur in maniera analitica, ha dato il via a un processo di sintesi che potesse declinare concetti legati alla musica minimalista e integrarli con l’improvvisazione. Successivamente il disco in piano solo “Composition And Reactions” (2017) ha portato avanti quella stessa sintesi ma arricchendo l’aspetto analitico con quello introspettivo e con l’elettronica che gradualmente nel tempo ha acquistato sempre più rilevanza (soprattutto dopo gli studi in Conservatorio a Piacenza col compositore Riccardo Dapelo, allievo del leggendario Alvise Vidolin). In “Crossroad Blues” (2019) ritengo che quella sintesi abbia raggiunto finalmente un risultato “concreto” in termini di linguaggio espressivo che sappia accostare il minimalismo, l’informale, l’elettronica di ricerca, il jazz, il rock, la classica contemporanea. Non so se questo possa essere definito un linguaggio globale, sicuramente è globale per me, soprattutto perché riflette la mia idea di una musica che accoglie tutto quello che mi interessa e appassiona.



JC: L’atmosfera creata in Crossroads Blues sembra una rievocazione degli anni settanta costruita con strumenti artificiali e lisergici, dove il blues ha connotati elettrici più che rurali e metropolitani.


RDR: Sicuramente, Crossroad Blues è il primo progetto in cui l’uso dei sintetizzatori analogici tipici di quegli anni (come l’Arp Odyssey o il Korg MS20) e della sintesi elettronica è pari all’utilizzo del pianoforte. Pertanto è possibile che la memoria riporti immediatamente a certe cose (che tra l’altro adoro) dell’Hancock di Mwandishi o di Zawinul. Credo sia però importante tener presente un aspetto fondamentale e differenziante: la prassi dell’elettronica di ricerca prevede che il compositore in una prima fase crei una libreria personale di suoni con cui poi poter comporre la propria musica, cosa che oggi si fa tramite il computer con programmi di sintesi adatti allo scopo. Un po’ come un pianista o un sassofonista che ricerca un proprio suono sullo strumento che potrebbe altresì definirsi artificiale. Pertanto in alcuni brani di Crossroad Blues o in molte parti di essi, il suono elettronico è usato come elemento compositivo caratterizzante e fondamentale, come se fosse ad esempio un elemento tematico. Dunque il senso del blues che deriva dal concept unitario dell’intero album in questo ambito si manifesta in atmosfere diverse e chiaramente lontane dall’idea del blues rurale tradizionale, per assumere forme, caratteristiche e significati più personali.



JC: In questo contesto tu metti a confronto ordine e caos, melodia e atonalità, giochi su contraddizioni e toni contrapposti, esalti gli attriti, innesti il rock nel jazz e viceversa mettendo la chitarra di traverso.


RDR: Crossroad Blues è un concept album elettroacustico che nasce da un’unica riflessione: l’interazione tra parte razionale e irrazionale del cervello che, nel migliore dei casi, porta alla creazione di opere che possano avere contenuti artistici. In un primo momento sono partito dall’analisi di alcune figure emblematiche di artisti “disadattati” come ad esempio Thelonious Monk, Syd Barrett, Vincent Van Gogh, Carlo Gesualdo e di come le loro opere fossero comunque connotate da “logica follia”. Successivamente ho cominciato a interessarmi di tecniche utilizzate in psicoterapia con cui è possibile trasferire certe esperienze disturbanti nella parte razionale del cervello in modo da annullare il loro disturbo. Così ho voluto “psicanalizzarmi” e capire come poter raccontare tutto questo in musica. Ogni composizione del disco rappresenta dunque un percorso unitario di sviluppo: da un’idea di texture aleatoria (il primo pezzo, “Hum”) a un’idea di melodia unica (“Dusk” di Andrew Hill), da un’idea di complessità a un’idea di semplificazione. Sono state utilizzate inoltre tecniche di scrittura diversa, da quella contrappuntistica (“Symptom Checklist 90 Revised”) a quella modulare minimalista (“Cope Inventory”) arrivando perfino alla forma canzone (“Un Cielo Pieno Di Nuvole”).



JC: Un brano ibridato come Dusk di Andrew Hill, unica cover del disco, diventa qualcosa di impalpabile, etereo, minimale, astratto nella sua concreta costruzione armonica.


RDR: È ormai da qualche anno che studio le composizioni di autori originalissimi ma, non so perchè, poco conosciuti come Andrew Hill o Herbie Nichols. In particolare Hill aveva uno stile strumentale ritmicamente molto complesso anche se apparentemente semplice e uno stile compositivo avanzatissimo, forse ancora oggi. “Dusk” è un brano caratterizzato da una splendida melodia per nulla scontata che si erge su una ostinata linea di basso molto ipnotica. Avevo realizzato un arrangiamento completamente diverso da quello di Hill presente nel disco del 1999 e molto simile a quello di Crossroad Blues già per il repertorio live del mio trio di qualche anno fa. L’ho recuperato e adattato alla formazione dei Basic Phonetics proprio perchè ritengo sia il giusto epilogo, malinconico e tranquillo a un tempo, per la conclusione di un lavoro profondo e introspettivo come questo.



JC: Pur essendo tu il leader, lasci molto spazio agli altri componenti, facendo si che le tue tastiere fluttuino tra protagonismo e tappeto sonoro, supporto e stimolo.


RDR: Non ho mai pensato di essere leader dei miei progetti dal punto di vista musicale. Anche perché è un concetto che non condivido molto se considerato nell’accezione dell’essere sempre in primo piano. Mi piace scegliere e coinvolgere musicisti che abbiano un “mondo” evidente, di modo tale che anche la rappresentazione del mio possa risultarne arricchita. In più Crossroad Blues è il primo disco in cui, oltre ad aver scritto la quasi totalità delle composizioni e dei testi, mi sono occupato interamente dell’editing, del mix e del mastering, utilizzando queste fasi della produzione come mezzo utile per la composizione dei singoli brani. Un po’ come ci hanno insegnato Miles Davis e Teo Macero, ho infatti ri-montato nel mio studio parti elettroniche o acustiche variando, talvolta radicalmente, l’idea originale del pezzo. Anche dal punto di vista dell’uso di effetti di ambiente, come reverberi o delay, c’è tutto un lavoro di post-produzione che ha assunto valenze compositive essenziali. Questo è dunque l’aspetto da leader che mi interessa: esserci senza essere necessariamente presente.



JC: In Crossroads Blues, mancano di fatto le pulsazioni di basso, quel tocco cardiaco che consentirebbe alla musica una certa carnalità. È una scelta tecnica o il progetto è nato con questa idea…


RDR: Altro aspetto per nulla secondario è il seguente: Crossroad Blues è il mio primo progetto in cui c’è una volontà precisa di differenziare il contenuto sonoro su disco da quello live. La scelta di escludere il basso è stata dettata da una serie di motivi: volevo sottolineare il timbro scuro della voce di Sarah Stride, essere libero di colmare le frequenze più gravi con i synth, col pianoforte oppure col flauto basso, volevo ottenere un suono d’insieme diverso dal solito. Naturalmente questa scelta ha comportato una cura particolare per gli equilibri interni di distribuzione delle parti e degli strumenti coinvolti, equilibri che risultano essere evidenti in una condizione ottimale come la ripresa in uno studio di registrazione. Dal vivo invece, non avendo a disposizione una situazione audio sempre uguale e gestibile, ho scelto di aumentare la presenza di strumenti che coprissero i range medio-bassi, introducendo parti di bass synth suonate dalla stessa Sarah, proprio per recuperare quella carnalità citata nella domanda. Il risultato è che dal vivo il gruppo ha un impatto molto più aggressivo rispetto al disco, sia per la percezione dei suoni che per il modo di suonare dei musicisti, come è giusto che sia.



JC: L’innesto di un chitarrista colto, duttile, versatile e di difficile inquadramento come Alberto Turra, una sorta di sparring partner, vuole essere l’idea stessa del progetto? Un qualcosa di inafferrabile?


RDR: Ogni musicista dei Basic Phonetics ha una peculiarità molto forte che chiaramente ho cercato il più possibile di evidenziare. Alberto rappresenta al meglio la mia idea di chitarrista, sofisticato e colto ma al tempo stesso ruvido e molto energico. All’interno del gruppo e del concept è chiaramente la parte che più di tutte fa sentire il legame col blues, evocatore di inquietudine interiore sempre carica di intensità disarmante.



JC: Le percussioni di Bussoleni e la voce cyber di Sarah Stride sono l’unico legame terrestre di Crossroads Blues, mentre Nicita si muove come un pifferaio incantatore stando in equilibrio tra i cavi elettrici di tastiere e chitarra.


RDR: Vale un po’ lo stesso discorso che facevo per Alberto, ogni musicista ha una valenza diversa ma complementare all’unitarietà di insieme. Sarah Stride ha portato un timbro vocale inusuale e fortunatamente poco catalogabile, Carlo Nicita è forse il legame più forte col mondo jazzistico ma evidenzia nel contempo uno stile molto personale e pregevolmente melodico; Davide Bussoleni è l’elemento di raccordo fortemente coloristico connotato da complessità ritmica, evidenziata tra l’altro da un set batteristico decisamente fuori dall’ordinario.



JC: Anche i nomi dei nove brani del disco hanno un qualcosa di inusitato e futuribile: una sorta di terminologia comportamentistica di umanoidi replicanti…


RDR: I titoli dei brani sono in realtà presi in prestito dal mondo della psicanalisi. Rappresentano degli strumenti di valutazione del livello di malessere presente nel paziente. Tutto il disco non è altro che una sorta di seduta psicologica in cui mi espongo integralmente per quello che sono.




Segui Flavio Caprera su Twitter: @flaviocaprera