Oofth, la musica a cinque dimensioni di Massimiliano Milesi

Foto: la copertina del disco










Oofth, la musica a cinque dimensioni di Massimiliano Milesi

Non stiamo ascoltando le musiche di una puntata di Ai confini della realtà, ma siamo asimmetricamente vicini alla filosofia che faceva ruotare quei mondi attorno alla fantascienza. Massimo Milesi, giovane e talentuoso sassofonista, è andato ad esplorare quei pianeti, immedesimandosi nel mood lisergico di Tevis e ricavandone un disco affascinate e misterioso allo stesso tempo.



Jazz Convention: Che rapporto hai con la fantascienza e Walter Tevis? Quest’ultimo, poi, ha avuto una forte influenza nella progettazione di questo tuo nuovo disco.


MM: La fantascienza mi ha sempre attratto, sin da bambino. Il primo approccio è stato cinematografico. Faccio parte di quella generazione che è cresciuta con la saga di Guerre Stellari di Lucas; sono stato talmente colpito dalle immagini di quel capolavoro che presto ho iniziato a ricercare quello stupore in altre pellicole del genere. Partendo dai film di Star Trek, ho visto più film che potevo finchè intorno ai quattordici anni ho scoperto 2001: Odissea nello spazio di Kubrik. Rimasi folgorato da quel film, sia per la qualità artistica che per le tematiche trattate; fino ad allora per me la fantascienza era poco più di un genere avventuroso ricco di azione e un pizzico di mistero. Con Odissea nello spazio ho scoperto che la fantascienza poteva trattare anche tematiche più alte e questioni filosofiche al pari di generi più “colti”. La cosa mi colpì al punto che volli sapere tutto sul film e sulla storia. Così scoprii Arthur C. Clarke, l’autore della sceneggiatura e soprattutto del libro che l’aveva ispirata: La Sentinella, presente in una raccolta di racconti. Comprai il libro e da lì cominciò la seconda fase della mia passione per la fantascienza, quella letteraria. Nel tempo ho collezionato molti libri e imparato ad apprezzare diversi autori. Tra questi spicca Walter Tevis, forse il più anomalo dei grandi scrittori di fantascienza. Mentre la maggior parte di loro possiede diverse conoscenze in ambito scientifico (per esempio Asimov era un biochimico), Tevis è probabilmente il più letterario. Molto vicino ad alcune tematiche della beat generation (altro periodo della letteratura nordamericana che adoro) ha creato un mondo fantastico meno aulico dove i protagonisti sono talvolta alienati (al punto di darsi all’alcolismo come lo stesso autore) e in aperto contrasto con una società delirante ed uno sviluppo tecnologico anonimo e incontrollato. È uno scrittore dalla doppia veste, interiormente fragile ma energico nella sua contestazione delle derive della società moderna.



JC: Il titolo del tuo disco è tratto dalla novella The Ifth of Oofth.


MM: Si, The Ifth of Oofth è un racconto del 1957 presente nella raccolta Lontano da casa del 1981. Fa parte di un ciclo di racconti aventi come protagonisti due scienziati. Uno dei due si chiama Farnsworth (proprio come uno dei due scienziati di Futurama, la serie fantascientifica di Matt Groening – è una evidente citazione). In questo racconto i due protagonisti armeggiano goffamente con una misteriosa invenzione multidimensionale di Farnsworth e, complice qualche gin-tonic di troppo, finiscono per causare la fine del mondo. È un breve racconto in cui l’ironia non manca ma la cosa che mi ha colpito è anche la presenza nel titolo di due neologismi creati dallo stesso autore. Nel racconto Ifth e Oofth non sono altro che i nomi della quarta e quinta dimensione. Sono termini basati su un gioco di assonanze molto efficace in inglese ma che perde di significato in italiano: le tre dimensioni spaziali (altezza, larghezza e profondità) in inglese: height, width e depth vengono ampliate con le altre due categorie Ifth e Oofth.



JC: Cosa lega la musica di questo tuo progetto discografico alle invenzioni letterarie di Tevis?


MM: Da tempo meditavo di dedicare un progetto alla mia passione per la fantascienza. Ho impiegato molto tempo per maturarlo e capire come poter convogliare un tema così ampio nella mia musica. L’idea definitiva è arrivata da sola. Non sapevo chi fosse Tevis finchè non ho scovato il libro Lontano da casa per puro caso, da un rigattiere. Mi sono innamorato del suo modo “più letterario” di trattare la fantascienza e in particolare mi sono appassionato all’ultimo racconto del libro: Echoes, una sorta di mito di Narciso reinterpetato a diversi secoli da noi, nel futuro. Ho voluto subito omaggiare quest’opera cercando una parola che potesse descriverla e l’ho trovata: un termine inesistente completamente inventato dallo scrittore. Nonostante Tevis sia stato attivo su più decadi, è riconosciuto come uno dei più importanti autori degli anni settanta e ottanta. Per il lavoro musicale sono partito da qui, ho cercato di riprendere le atmosfere (che mi stregavano da bambino) delle colonne sonore dei film fantascientifici dell’epoca. Particolare riferimento sono le musiche scritte da Vangelis per Blade Runner.



JC: Oofth è il tuo primo disco da leader: la musica che si ascolta è a metà strada tra l’innaturale e la concretezza matematica, l’acidità rock e le derive avanguardistiche, l’artificialità degli strumenti elettronici e il calore di sax e batteria?


MM: Come dicevo prima la principale fonte di ispirazione sono state le musiche per i film di genere degli anni settanta e ottanta. Ho lavorato quindi su due piani: ho cercato di ritrovare i suoni dell’epoca inserendo i sintetizzatori del periodo e uno strumento figlio di quegli anni, il bass VI della Fender (molto usato nel progressive rock, in particolare dai King Crimson). Dal punto di vista compositivo ho poi scritto dei brani che richiamassero le progressioni armoniche di alcune colonne sonore unitamente a linee tematiche ampie ed evocative. Pertanto nella musica di questo progetto ci sono molte sonorità vicine alla sperimentazione di quegli anni. Direi che hai colto nel segno notando la dicotomia tra innaturale e concretezza, artificialità e naturalezza. È la base di tutta la produzione fantascientifica (Tevis compreso) ed era l’aspetto più importante che volevo rendere con questo lavoro.



JC: Le sette composizioni originali del disco appartengono alla tua creatività: ce ne racconti in breve la genesi?


MM: Tutti i brani sono miei, di questi quattro sono stati composti appositamente per il progetto. Gli altri tre sono stati scritti recentemente ma non avevano ancora trovato una collocazione. Li ho scelti tra tanti perché meglio si adattavano alle sonorità che avevo in mente. Il brano d’apertura, I have no words è una sorta di mini suite che si apre con un pedale in 7/4 (chiaro richiamo al prog. d’annata), e presenta un momento centrale in cui si assiste ad una sorta di incontro tra la psichedelia e il free jazz. Nella parte finale improvvisiamo attorno ad un tema che continua a ripetersi a loop (come avviene nella musica elettronica). In quest’ultima sezione si può notare la dicotomia di cui si parlava prima: attorno ad una linea regolare e ripetitiva noi aggiungiamo degli elementi vitali e brulicanti. Spesso i titoli hanno a che vedere con termini puramente scientifici: Doppler e Redshift. Altre volte hanno richiami letterari: I have no words ha a che vedere con una poesia di Kenneth Rexroth (poeta beat molto affine a Tevis); Ifth è chiaramente riferito alla novella; The Slide-Rock Bolter è un mostro della mitologia dei pionieri del west; Tibbish Tizzp (che significa bomba intelligente) e Bad Goat, fanno riferimento a due episodi del racconto di Tevis.



JC: I tuoi partner appartengono alla nuova generazione del jazz italiano: posseggono affinità con altri generi musicali che ibridano con il jazz. In che maniera hanno condiviso il progetto Oofth?


MM: Ho scelto molto accuratamente i musicisti per questo progetto proprio per il motivo che hai detto. Avevo necessità di collaborare con musicisti avvezzi alla sperimentazione e all’ibridazione. La scelta è ricaduta su Emanuele Maniscalco, Filippo Sala e Giacomo Papetti che sono persone con cui collaboro da molti anni ed alle quali sono legato anche da sentimenti d’amicizia. La scelta si è rivelata efficace ed azzeccata. Tutti e tre hanno partecipato attivamente e con entusiasmo. Da parte mia ho voluto che le loro qualità si palesassero il più possibile, pertanto ho condiviso con loro le mie idee su come arrangiare e sviluppare i brani senza imporre a priori le mie scelte. Il risultato è stato un lavoro di squadra di cui vado particolarmente fiero. In ogni brano c’è qualcosa che è stato proposto e inserito dai miei compagni di viaggio; questa forse è la manifestazione più alta di quello che nel gergo jazzistico è chiamato interplay.




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