Odwalla, ed oltre – Incontro con Massimo Barbiero

Foto: Davide Bruschetta (per gentile concessione dell’artista)










Odwalla, ed oltre – Incontro con Massimo Barbiero


Un incontro con Massimo Barbiero non è in realtà evento raro su queste pagine né su altre peraltro, stante l’elevato grado di presenza con cui il talentuoso batterista-percussionista e band-leader piemontese elargisce esternazioni, non soltanto in accompagnamento o a commento della sua articolata vita discografica, concertistica e collaborativa.


Nella presente occasione ne aggiorniamo il profilo mediante stralci di una già lunghissima e informale conversazione che prendeva spunto dall’uscita di Ancestral Ritual, ultima produzione dell’animato e multietnico ensemble di musiche e danze Odwalla Percussion, allora accompagnata da un pregevole volumetto illustrato (Tempus Fugit), e che riproponeva in mutata chiave anche repertorio dell’altra grande band del Nostro, arruolando importanti guest-stars quali Baba Sissoko e Gaia Mattiuzzi.


A poca distanza di tempo si salutava con convinto apprezzamento Minótauros di Enten Eller, vigoroso pamphlet di contemporanee visioni free, poi inscenato nelle sue espressioni live entro formule teatranti di ampio respiro con danze ed espressioni corporee, a breve seguito dall’uscita di un importante volume riepilogativo per il trentennale di vita della band (Il suono ruvido dell’innocenza), ricco di materiale iconografico ed interviste agli animatori e a collaboratori del gruppo. Peraltro, la figura del Nostro era stata oggetto di già due monografie (una traente il titolo dalle due formazioni principali, seguita da Sisifo: La fatica della ricerca).


Formatosi (anche) nell’orbita di fuoriclasse quali Jack deJohnette, non rinnegando radici prog-rock (ma soprattutto ribadendo la precoce fascinazione da parte dell’Art Ensemble of Chicago – da cui si trasse il nome del suo laboratorio di mélanges ritmici e figurazioni di danza), temprato nelle sue traiettorie a fianco di personalità tra cui Tim Berne, Hamid Drake o Alexander Balanescu, lucido portatore di un certo disincanto verso la società dello spettacolo, ma non per ciò limitato in motivazioni e spirito partecipativo, in precedenza testimone civile della critica de-industrializzazione nel Canavese e altre realtà del Nord-Ovest, abbiamo conversato con Massimo Barbiero durante un esteso periodo registrando ulteriori produzioni fino ai presenti giorni, scanditi da planetarie criticità e nuove riflessioni; dalle ispirazioni kierkegaardiane alla cura di varie espressioni del ritmo e alla partecipazione in musica e pensiero, al presente concentrato di una spontanea e libera conversazione con il “franco” battitore eporediese, articolata e toccante di fatto temi eterogenei, riteniamo di fissare un punto – almeno provvisorio.



Jazz Convention: Registriamo una tua fertilissima vita sul versante discografico: preso a suo tempo in carico il nuovo ma non più fresco Odwalla, già c’è stato il sorpasso di ulteriori, nuove tue uscite in CD (tra cui un eccellente Enten Eller). C’è un’evidente fiducia su questo medium…


Massimo Barbiero: Se intendi nei CD, non più di tanto.
I dischi, i miei primi due erano ancora LP, sono per me da sempre operazioni “artistiche”, filosoficamente “necessarie”, sono momenti che vengono fermati, definiti come una sorta di filo del proprio percorso.
Certo poi c’è l’aspetto lavorativo, professionale, un nuovo disco serve anche a far sapere che esisti, serve ad essere invitato ai festival, diciamo che “dovrebbe” funzionare così. Ma ormai il panorama italiano è molto vicino alla parodia, tutto un carrozzone dove gatti e volpi si sprecano….
Quindi rispondo che in questo medium non vi è invece nessuna fiducia, che il mondo che lo misura si è squagliato da tempo, tant’è vero che da qualche anno faccio solo autoproduzioni per evitare di essere parte di quel circo di centinaia di etichette che millantano distribuzioni, promozioni, referendum e paesi dei balocchi vari. Almeno su questo vorrei sentirmi sufficientemente consapevole del mondo in cui vivo.
Quindi per chiudere già è uscito un altro CD di Enten Eller, nuove formazioni in trio, e ulteriori cose stanno uscendo o sono in programma: nuovi progetti solo, duetti di cui uno atteso con Markus Stockhausen, e tutto ciò perché credo che suonare sia appunto necessario, non certo perché il medium possa sbloccare situazioni lavorative … non in questo paese almeno.



JC: Analogamente, abbiamo apprezzato supporti grafico-visivi cartacei, un pregevole volumetto fotografico su Odwalla, ed una fresca monografia su Enten Eller.


MB: Il “libro” è un saggio del musicologo Davide Ielmini e non è collegato al CD con Sissoko, che è un live inciso nel giorno della presentazione del libro stesso con un convegno incentrato sul lavoro e linguaggio di Odwalla, dove hanno partecipato Maurizio Franco, Alberto Bazzurro e lo stesso Ielmini, ed è di quest’ultimo ancora il più recente volume monografico su Enten Eller.



JC: Parliamone …


MB: Direi che si tratta del tentativo di raccontare non la storia del gruppo ma la “musica in quanto storia”, e le interviste rivelano un disegno: non servono solo a far emergere le persone, ma delineare i contorni e le attitudini della “super-entità” costituita da Enten Eller, uno dei gruppi più originali e insieme più sfuggenti di tutta la scena italiana devota all’improvvisazione creativa. Uso anche parole di Claudio Sessa, che ne ha curato la prefazione, individuando ciò che Ielmini cercava … non una biografia, ma il rendere un’estetica attraverso i punti di vista dei componenti e di chi ha collaborato con loro: danzatrici, fotografi, scrittori …



JC: Comunque lo si consideri, un ulteriore investimento su media fisici: potremmo chiedere qual è il Vostro bilancio su tali (rare e apprezzabili) operazioni?


MB: Il “bilancio” su investimenti come i libri, i DVD o i CD non è mai troppo legato a risultati materiali, semplicemente ha il suo obbiettivo nel rafforzare la percezione del progetto e dei suoi contenuti.
Spesso è accaduto che, anche se con splendide recensioni, non si avesse idea di cosa suonassimo realmente. Ielmini è un musicologo e sia nelle fonti, nella scrittura nel rapporto con la danza e la voce ha saputo descrivere mondi che spesso sono stati ridotti alla solita Africa o a M’Boom Re: Percussion di Roach. Che certamente coesistono, ma da Strawinsky e Pina Baush dal Gamelan ai Genesis pochi hanno saputo decifrarli… perchè? Nascosti? Io non credo, la scrittura di Odwalla nell’ultimo CD ha saputo accogliere Sissoko, come in passato Hamid Drake, Don Moye, Billy Cobham, Mino Cinelu e nel caso della danza da quella afro-contemporanea a quella europea sino al flamenco. Ma tutta questa stratificazione raramente è stata colta, serve appunto una preparazione che in questo ambiente manca, salvo rari casi… si riduce tutto ad una macchietta, al gruppo di percussioni…che fai i ritmi, o per antitesi si salta a Xenakis o Varèse così si fà anche una figura colta….il lavoro negli anni è stato amalgamare tutti quei linguaggi per crearne uno nostro, Odwalla ha trent’anni, centinaia di concerti, CD e DVD, libri… eppure chi non ha visto il progetto dal vivo tende, pur parlandone sempre benissimo, a ridurre a quel mondo da freak fatto di world music, new age, alimentazione, spiritualità e un po’ di erba pipa….
Odwalla forse è anche quello, ma è operazione più colta e più arcaica che cerca in una tribalità, in un rito pagano appunto… quello che il jazz era in origine. Non mero esercizio, ma liberazione degli istinti più primordiali mediati dal pensiero.
Certo tutto ciò può sembrare pomposo e presuntuoso….ma 30 anni sono tanti, e quel saggio di Ielmini ha lo spessore di descriverlo bene. Il problema come sempre è suonare, gli spazi, i costi di un simile progetto che ha musicisti e danzatori in giro tra Italia e Francia fa fatica a trovare spazi, anche se la maggior parte dei festival nazionali li abbiamo effettivamente fatti e molti anche in Europa, ma sempre troppo poco temo.



JC: Una volta trattato della realtà discografica, tratteremmo della controparte concertistica. Se se si è molto parlato della realtà di certe organizzazioni festivaliere, concertistiche etc., probabilmente non si parla altrettanto delle interazioni con il pubblico: tenuto conto delle stratificazioni generazionali, quale fisionomia si vorrebbe attribuire, ad oggi, al pubblico stesso?


MB: Credo sia un discorso complesso, cioè l’assunto che sia il pubblico a scegliere sarebbe vero se ci fosse un offerta più ampia possibile, e di pari passo un’informazione ugualmente corretta. Ma sappiamo tutti che così non può essere nel contesto storico in cui viviamo, basterebbe pensare agli anni ’60-70 come funzionava la TV in senso culturale, ma se vogliamo anche i festival dell’Unità o qualunque evento che veniva organizzato in palasport vari. Certo vi era anche un uso politico propagandistico (elettorale spesso) nell’organizzare eventi musicali e o culturali. Detto ciò quegli anni hanno permesso a gruppi come Area o Perigeo di arrivare ad un pubblico che oggi mai si sognerebbero, la maggior parte del rock cosiddetto prog, non avrebbe avuto spazio, difficilmente Umbria Jazz sarebbe mai nato se tutte queste cose fossero dovute passare attraverso le maglie del marketing o di interessi di bottega ed equilibri e spartizioni varie sia di mercato che di denaro … quindi mi riesce difficile immaginare che uno scelga Bollani per libero arbitrio. Bollani è un grandissimo musicista, ma negli anni ‘70 chi ascoltava Clayderman o Stephen Schlaks non ascoltava certo Jarrett o Corea… oggi chi va ai concerti di Bollani va anche a quelli di Allevi… si può ancora parlare di pubblico?



JC: Citiamo il veterano giornalista Franco Fayenz che, interrogato sullo “stato di salute” dei canali concertistici ha preferito puntualizzare sullo stato della Cultura in Italia, che a suo parere “non è buono”.


MB: Non è che non è buono, semplicemente non è !
Organizzo un festival storico in Italia Open Papyrus Jazz festival (ex Euro jazz) che quest’anno avrebbe segnato 40 edizioni – ma è proprio di questi giorni, come per tutte le manifestazioni analoghe, la notizia della sua sospensione.
Se sopravvive è per la nostra volontà, per la riconoscenza che dobbiamo a quel festival che ci ha fatto conoscere infiniti musicisti, che ha fatto di noi musicisti. Ma lo abbiamo fatto con un budget di 30.000 euro di cui noi troviamo una parte, dove noi lavoriamo e suoniamo gratuitamente per tenerlo in vita. Devo parlare di manifestazioni, dove suono anche io certo… ma che hanno budget da far tremare i polsi con direttori artistici pagati solo per scegliere i nomi. Dobbiamo parlare di cosa si cela spesso dietro simili manifestazioni oltre alla propaganda politica….
Veramente la domanda sullo stato della cultura ha bisogno di una risposta? Da oltre 20 anni la cultura è solo uno strumento per muovere denaro e affidare incarichi a qualcuno.
Sui contenuti nel 90% dei casi nessun referente (politico) avrebbe capacità tecniche di giudizio credibili.




JC: Tra il pubblico e l’artista sembra esservi una qualche mediazione da parte della (cosiddetta) critica, e sul valore di questa (nel corso di precedenti conversazioni) hai espresso personali riserve: per quanto opinabile possa suonare, sarebbe il caso di riprendere la questione.


MB: Per me la critica è sempre stata fondamentale, sia per comprendere un’opera (parlo anche di letteratura, teatro, cinema, danza, architettura) figuriamoci in musica! Dalla scelta dei dischi sin da quando leggevo Ciao2001…sia quando leggevo o leggo una recensione su un mio CD. Testi come Free Jazz-Black Power o Il popolo del Blues, o L’Improvvisazione di Derek Bailey ma potrei continuare con Mila o Adorno, che sono stati fondamentali per costruire uno spirito critico verso sé stessi. Oggi? oggi temo sia il caos, scrive chiunque e su qualunque cosa, non solo in musica evidentemente e senza studiare ed esser preparato: negarlo sarebbe stupido. Trenta anni fa in un dibattito tra critici e musicisti su Musica Jazz Franco D’Andrea invitava la critica a scambiarsi i ruoli per un mese… ma questo significava che chi scriveva di musica avrebbe dovuto imparare a suonare … e D’Andrea è notoriamente persona tranquilla e non proprio un provocatore, ma credo stia lì la questione. Ma capisco che siamo andati ormai troppo in là, veramente troppo in là.



JC: Di quando in quando, e più spesso sui social che sulle piattaforme a stampa, veniamo gratificati da alcune “classifiche” (o “contest”) circa il valore artistico dei contributori al mondo del jazz, tra i meno definibili ed inquadrabili. Un po’ gioco al massacro, un po’ fiere delle vanità, i “risultati” gratificano pochi, sconcertano o lasciano perplessi i più.


MB: Non credo alle gare, come diceva Branduardi anni fa a proposito di Sanremo: “le gare sono fatte per gli atleti”, e nel caso del jazz “muscolare” ormai sembra effettivamente una performance sportiva.
Ma se devo rispondere seriamente (non che prima non lo fossi) senza farmi ulteriori nemici, cosa posso dire se non banalmente a chiunque sappia fare i conti e attraversare la strada da solo che un referendum credibile deve mostrare numeri, nomi, pubblicarli certificandoli (con un notaio) altrimenti è aria fritta, così fanno tenerezza e pensare che ci si possa “voler credere” è il metro che misura la nostra categoria. Un confine tra ingenuità e … come dire, un tenere in piedi un mondo che non c’è, di cui a nessuno importa, ma che qualcuno alimenta per fini economici facendo leva sull’Ego dei musicisti che notoriamente suonano Desafinado in tutte le tonalità ma non sanno se o perché è aumentato il pane.
Non nego di esser apparso infinite volte su quelle classifiche, ché l’Ego ne trae piacere, ma anni fa era una cosa assai diversa … tanti anni fa. E ad ogni modo non va presa sul serio, come ogni cosa del resto, il pericolo di finire col crederci è dietro l’angolo.



JC: Anche alla luce di quanto già detto, la tua opinione e posizione rispetto ai Social e al loro valore: nella promozione culturale in generale ; nell’auto-promozione in particolare.


MB: Ribadisco di considerare i dischi una necessità “artistica”, se la parola ha ancora un senso; il resto per me sono operazioni commerciali al di fuori dal mondo reale. Non c’è più un mercato e le centinaia, anzi migliaia di etichette i CD li stampano per venderli ai musicisti a cui piace credere che vi sarà una promozione, distribuzione etc. Ma dico sono gli unici a crederci ancora, è per questo che, ripeto, ho optato per autoproduzioni negli ultimi anni. Le piattaforme di vendita? (è di Bandcamp che parliamo?): bene, ognuno sceglie come meglio crede ma io vorrei non sentirmi parte di quel mondo che, lo sappiamo tutti, non esiste più da almeno 20 anni. Inviterei ad un po’ di serietà …
dopo quanto ho detto prima, credere a queste “realtà” senza esser adolescenti o “affermate pop star” direi che è poco realistico …



JC: La nostra conversazione, ormai annosa, partiva dell’esperienza del titolo, confermandosi Odwalla un laboratorio vivente e in trasformazione che continua ad incorporare personalità, spunti e direzioni creative: superato il trentennale con l’anno appena trascorso, ragioni e spunti ulteriori per tentarne una sintesi ed un bilancio.


MB: Il bilancio per me è positivo, l’anomalia del gruppo, del provincialismo del nostro paese ed il fatto che siamo ancora insieme è già di per sé un motivo di orgoglio, ormai il termine “progetto” è usato da chiunque per un CD, un concerto … e poi non ci si vedrà mai più. Considero i progetti qualcosa di vivo, un’idea forte che deve crescere, che cambia, muta, si rigenera ma ha bisogno che sin dall’inizio vi sia una condivisione reale, non speculativa. In quel senso il bilancio è positivo, avremmo potuto suonare molto di più, ma come detto la complessità del gruppo, distanze, strumentazione e negli ultimi 15 anni la danza obbligano sia noi che gli organizzatori a fare scelte. Certo è un peccato perché alla fine di ogni concerto quando vedi il pubblico entusiasta, vendi decine di cd ti spiace sapere che magari passeranno mesi prima del prossimo concerto, o sei frustrato nel vedere cartelloni tutti uguali … ma forse è stata proprio quella la cosa che ci ha tenuto insieme, la convinzione che quello che stavamo facendo non era “intrattenimento”.



JC: Un racconto della percussione: dal doppio punto di vista della batteria e della marimba :


MB: Sono strumenti diversi: per quanto mi riguarda quello che dico da anni è che lo studio della marimba, ma anche vibrafono e tutte le percussioni a suono determinato, mi ha portato ad avere una visione più melodica della batteria e viceversa.
Certo c’è chi lo fa da ben prima e quello che semplicemente mi preme è sottolineare che da Paul Motian a Mike Giles molta musica non avrebbe avuto determinati sviluppi senza quel tipo di concezione e disponibilità a mettersi al servizio della musica, dimenticandosi quella visione tipicamente batteristica di virtuosismo spesso fuori luogo e troppe volte invasivo.
Suonare la marimba in Odwalla mi ha permesso di capire cosa non volevo che facesse il batterista mentre facevo un solo, ho capito quanto spesso puoi rischiare da batterista di infastidire il solista … e lo capisci meglio quando appunto sei un solista e devi fare un solo di marimba o di vibrafono.
Mentre ritmicamente può accadere che in un accompagnamento un riff diventi più batteristico.
Ma in sintesi quello che con gli anni credo di aver capito è che un ritmo già di per sé è una melodia così come il contrario, sia esso una clave cubana o un intro di timpani… considerarli separati rende la concezione stessa di musica frammentata e spesso fragile.
Come diceva Leonardo Da Vinci “il timpano va suonato come il dolce flauto e il monocordo” – e se l’aveva già capito lui …



JC: Particolamente con Odwalla (certo ben più che con Enten Eller) la rappresentazione scenica mostra un tappeto ritmico (e danzante) mutuato dalla teatralità del Sud del mondo, su cui spesso s’innesta una coloristica linea di solista, improntata piuttosto a logiche e formule espressive euro-americane. Fin qui, tutto bene: ma è davvero l’unica formula possibile?


MB: Come detto sopra e in altre risposte c’è molto, ma molto meno Africa o sud America di quanto un giovane freak possa credere, c’è più Europa, Stravinskij, teatro greco, Pina Bausch, Momix … Insomma l’Africa c’è come c’è in Coltrane. Il fatto che negli ultimi anni abbiamo avuto danzatori africani (residenti a Parigi) e che durante il concerto vi siano uno-due brani con un momento di danza afro, circa 10-15 minuti bis compreso non fa di noi un gruppo né afro, né etno-jazz… ma si sa, qualcuno deve sempre cercare di incasellarti e quindi quello è più semplice.
Il lavoro di lettura andrebbe fatto sui brani, sulle costruzioni poliritmiche e polimetriche, sull’uso del minimalismo e delle cellule ripetitive (si considerino Satie, Reich, Glass) ma piegate ad uno sviluppo diverso.
Chi vede il concerto percepisce queste diversità, ma non ha bisogno di “capirle” ma sente che le cose vanno “altrove”… quello che abbiamo sempre evitato sia nella scrittura (danza compresa) che nel concerto è diventare un circo dei giocolieri (cosa che troppo spesso appartiene ai percussionisti) l’esser poco musicista è più un fuoriclasse che stupisce…
A noi interessa il contenuto, se poi qualcuno vede un concerto afro e gli piace va bene lo stesso … come detto c’è chi sente in noi Xenakis… mah!



JC: Parlando delle ritmiche d’origine africana importate o elaborate in Odwalla, ti sei espresso decisamente a favore di queste piuttosto che di quelle derivative nate dalla diaspora nel continente americano.
Si rischia il tecnicismo, ma sono pur sempre considerazioni di grande interesse.


MB: Il problema della musica cubana o in generale latino-americana risiede semplicemente nell’avere una “costruzione” molto geometrica, per certi versi come quella indiana (tabla) in cui si va per multipli: questo impedisce la possibilità di rendere la pulsazione. Nel senso che nella musica africana e quindi poi nel jazz e tutte le musiche etniche varie la terzina è quella che porta alla concezione dello swing, far convivere pulsazioni latine molto quadrate è di difficile convivenza a meno di essere sufficientemente eretici da non usare le percussioni come un campionario di “suoni dal mondo”, cosa che fanno per la maggior parte gli ensemble di percussioni tipo… brano latino, brano afro, ora un pezzo con gli strumenti a suono intonato etc… In quel senso si rischia di far tutto meno che musica. Sto parlando ovviamente di ciò che facciamo noi, per fare un esempio se usiamo le steel drums non lo facciamo per ricreare atmosfere caraibiche, o se usiamo il vibrafono non è che per forza debba uscire Burton, o se ci sono i Gamelan poco ci importa di richiamare l’isola di Giava (magari li usiamo per simulare la campana di Hells Bells): la scelta è proprio quella di non diventare una macchietta da cartolina turistica.



JC: Considerazioni complementari ma di differente segno per quanto attiene al versante Enten Eller, egualmente trentenne, e di cui si è apprezzato l’eccellente Minótauros. Tenterei un riepilogo aggiornato della vita del gruppo e del suo attuale stato vitale.


MB: Il gruppo esiste, suona, incide ovviamente si suona poco per le solite dinamiche su cui è inutile ripetersi. Ma nonostante ciò a 32 anni di storia e 16 dischi siamo sempre entusiasti di ciò che facciamo, che sia un lavoro come Minótauros (lavoro per 4 musicisti e 4 danzatrici eseguito all’interno di un Museo) o sia un lavoro come “E(x)stinzione (con orchestra ed ospiti vari, testi e proiezioni), come il recente libro ben descrive.
Non abbiamo mai ripetuto una formula, né abbiamo mai inseguito una moda (forse per quello abbiamo suonato meno di altri !): l’importante è di fronte ad un nuovo disco o concerto avere lo stesso entusiasmo dell’inizio o perlomeno averlo alimentato fatto crescere. Abbiamo sempre discusso tra noi, ma è sempre stato il suonare la prima cosa.



JC: Cosa suscita nell’animo l’espressione “free”?


MB: Libertà immagino, che per me non è solo musicale. Sono solito dire ai miei allievi che si studia per essere liberi e che se si è liberi si è felici, ma che è vero anche il contrario se si è felici si è liberi …ma si deve studiare per comprenderlo.



JC: Juventus o Torino?


MB: Juventus, io arrivai anche a giocare nella Primavera (giovanili della prima squadra).
Diciamo del Piemonte in senso più ampio, ma la squadra né è poi la fotografia, per pragmatismo (testa bassa e lavorare): penso a Pavese, Fenoglio, Einaudi … gente chiusa e spesso scorbutica come se non ci fosse tempo per altro (le poesie di Pavese, Antenati, definiscono bene quel carattere). Io però pur essendo nato e vissuto sempre qui sono figlio di genitori veneti.




JC: Modelli e riferimenti apprezzati; modelli da non imitare e Cattivi Maestri


MB: Non ho la presunzione di individuare maestri buoni o cattivi, ognuno trova i propri, fa i propri errori. E difficilmente, almeno finché suonerò, produrrò dischi etc … non darò opinioni sul lavoro altrui, ma credo nemmeno dopo.



JC: Giorni correnti, nuove criticità: una ferita alla “società dello spettacolo” o una feritoia verso realtà ulteriori?


MB: Ovviamente è un danno a musicisti, attori, ballerini, studi di registrazione, fonici, servizi etc..
ad Ivrea, come dicevamo, abbiamo appena disdetto il festival alla sua 40esima edizione con tutto il materiale già in stampa.
Ma ogni settore avrà evidentemente i suoi problemi, e tutti enormi. Servirebbe non perdere il controllo primo perché non serve- secondo perché lamentarsi ora produrrà solo delle non risposte.
Non credo ai live streaming o cose simili … siamo tutti colpiti, non solo la comunità dello spettacolo, servirebbe comprenderlo.
Verso “realtà ulteriori”, non so e non spetta a me soprattutto in questo momento formulare ipotesi o giudizi. So che da una riflessione più filosofica se vogliamo, penso a Camus “La Peste” ma anche sociologica “Massa e Potere” di Canetti, si aprono spiragli di grande profondità ma vanno colte e ci si deve fermare a riflettere.
In termini sociologici dopo simili esperienze si riparte con più forza e voglia di fare. In termini artistici, spirituali se vogliamo (in senso laico) simili situazioni non possono non metterci davanti sul “senso” stesso della vita, di questo correre in maniera scomposta e spesso senza nessuna meta … morendo, come diceva Pavese, come i vermi e le foglie della stagione passata che nemmeno sapevano di esser vissuti. Ecco se servisse a far comprendere quanto tutto ciò che facciamo e suoniamo … sia fragile e passeggero forse, e dico forse, lo affronteremo in modo più leggero …



JC: Riprendendo un (vostro) vecchio adagio: “Il jazz lotta ancora contro l’oblio”?


MB: Dovremmo intenderci sulla parola jazz. In Italia non credo si abbia una cultura rispetto a quel termine, cosa diversa ovviamente per gli USA, o in Francia ma anche per la Norvegia che ha investito su quel “suono”, l’ha finanziato e oggi si può parlare di jazz nordico. Ci si scrivono libri, qui c’era un patrimonio dagli anni ’60, il free romano sino al jazz mediterraneo degli anni ’80-90… Ignorata almeno qui dall’assenza di politiche di sostegno al punto che oggi ci troviamo con ottimi musicisti che ormai suonano tutti un jazz di matrice statunitense, se vogliamo una sorta di resa in termini di autostima (a parte i soliti nomi storici ovviamente).



JC: Una risposta a piacere


MB: Il pifferaio di Hamelin non dorme mai.



JC: … alla prossima stagione.



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