Foto: la copertina del disco
Il dono della “Voce”: Giorgio Pinardi aka MeVsMyself
Giorgio Pinardi è uno dei pochi cantanti italiani che fa un uso particolare della voce. Egli la utilizza e la tratta come se fosse uno o tanti strumenti. Pinardi è un esploratore di mondi e suoni, un viaggiatore senza valigia in possesso di un dono prezioso che gli permette di riprodurre o dare nuova vita a quanto visto e ascoltato. Il suo sguardo va dal jazz al folk alla fusion alla world music. Ha al suo attivi due dischi e molte cose interessanti da raccontare.
Jazz Convention: Giorgio Pinardi, quando e come hai scoperto il dono della voce?
Giorgio Pinardi: La scoperta della Voce è avvenuta da bambino grazie al riconoscimento di caratteristiche e potenziale da parte dei miei primi insegnanti, preparatori del coro di voci bianche del Teatro alla Scala di cui ho fatto parte per alcuni anni. La consapevolezza interiore di avere una Voce è avvenuta moltissimi anni dopo, durante gli anni della mia formazione (tuttora in corso) sullo strumento Voce. Qualcosa ad un certo punto è cambiato nel mio modo di vivere il canto, ponendomi domande interiori importanti che mi hanno fatto capire tanto di me, della Voce, del senso da dare a questo strumento nel mio percorso.
JC: Quali studi hai compiuto e chi sono stati i tuoi maestri sia in campo didattico che musicale?
GP: I miei studi sono stati variegati e con buon larga presenza di docenti italiani e internazionali. Fare un elenco completo è impossibile in poche righe, ma ci tengo a ricordare quanto mi abbiano dato grandi maestri come il musicologo vietnamita Tran Quang Hai, il primo a insegnarmi il canto armonico, e Roger Treece (collaboratore e arrangiatore di molti artisti tra cui Bobby Mc Ferrin, Sting, Manhattan Transfer), il primo a farmi capire come l’improvvisazione potesse diventare un potentissimo strumento compositivo.
JC: Le tue passioni musicali verso quale genere tendono?
GP: Mi è molto difficile identificare un solo genere tra le mie preferenze. Potrei rispondere di avere un grande amore per la musica soul, non resistere al funk, adorare la musica sperimentale e d’avanguardia, rimanere affascinato dal jazz e certamente subire l’incanto della musica corale. Se fossi costretto ad indicare un solo genere potrei dire il rock psichedelico!
JC: … E i tuoi cantanti, nel senso dell’uso che fanno della voce come strumento?
GP: I cantanti che preferisco per motivi molto diversi tra loro sono Demetrio Stratos, Bobby Mc Ferrin, Mal Webb, Christian Zehnder e diversi altri.
JC: Com’è il tuo rapporto con l’elettronica, visto che la usi molto…
GP: Non mi ritengo affatto un esperto di elettronica, nel mio progetto in Voce Solo una delle sfide è di giocare sulla contrapposizione tra i limiti tecnici e timbrici della voce, con costante lavoro sulla tecnica e la sperimentazione di nuove soluzioni senza altro che la voce nuda e cruda, contro l’uso dell’elettronica vista come integrazione e fusione di un potente strumento in grado di far cogliere possibili evoluzioni del timbro, del suono vocale. Posso dire che parto sempre cercando di creare effetti elettronici da modificazioni timbriche, per poi arricchire tali ricerche con il giusto compromesso tecnologico, eccezion fatta per quei momenti in cui voglio giocare marcatamente alla ri-creazione della voce attraverso un uso massiccio dell’elettronica.
JC: Come si allena la voce? Visto che in un brano la usi come strumento ritmico, armonico e melodico?
GP: L’intero progetto è costruito partendo dall’idea, poco occidentale a dire il vero, che la voce sia il primo strumento, da cui successivamente tutti gli altri si sono sviluppati e costituiti. Attorno a questo fulcro, il mio utilizzo del suono prevede un lavoro di continua connessione con elementi ritmici, melodici e armonici, attraverso un continuo rapportarmi a loro. La difficoltà per me sta nel cercare di mantenere un dialogo continuo tra l’interiorizzazione di elementi teorico-pratici di studio, con l’anarchico (in apparenza) lasciar scorrere libera la creatività senza sovrastrutture, giudizi, preconcetti.
JC: Hai registrato due dischi, Yggdrasill nel 2015 e Mictlàn nel 2019. Quali differenze ci sono tra i due?
GP: La principale differenza di Mictlàn rispetto al precedente Yggdrasill sta nel mio evolvere e maturare una rielaborazione più personale degli stimoli culturali e musicali appartenenti a tradizioni di ogni parte del mondo. Nel primo disco ero più attento nel fondere molti stimoli diversi, a far sì che tutti fossero ben riconoscibili, se isolati. Nel nuovo disco ho cercato di concentrarmi su quello che volevo far passare di personale e maggiormente originale, nel rielaborare determinate sonorità. Si tratta di due lavori che considero assolutamente complementari nel loro essere simili eppure diversi tra loro. Certo, riconosco come in Mictlàn vinca meno la tradizione, che prova ad essere più innovazione. In questo processo devo dire grazie al preciso lavoro di Paolo Novelli degli studi Panidea di Alessandria, compagno di viaggio insostituibile per perizia tecnica, capacità di analisi e critica costruttiva, produttore veramente attento e presente in ogni fase di definizione del mio suono.
JC: Mictlàn è un viaggio senza frontiere attraverso le musiche del mondo che alteri e trasformi con l’uso dell’elettronica. L’ispirazione ti viene dai viaggi o dagli ascolti?
GP: L’ispirazione purtroppo giunge poco e niente dai viaggi (che vorrei fare ma che riesco a compiere nelle aree da me citate in minima parte, per ora), e moltissimo da ascolti, letture, approfondimenti e studio con chi ha vissuto o viaggiato nelle aree da me citate. Conto comunque in futuro, quando sarà possibile, di colmare le mie lacune cercando di vivere certi luoghi, arricchendo la mia preparazione e interesse per la musica etnica (e non).
JC: Che effetto fa esibirsi davanti al pubblico in solitudine interagendo solo con se stessi?
GP: È una vera e propria sfida, da qui il nome MeVsMyself per il progetto. Per scelta programmatica mi impongo di non riproporre in alcun modo la musica dei dischi ma di compiere lo stesso processo compositivo che ha portato alle registrazioni, dal vivo. Quindi ogni suono, ogni soluzione, ogni ambiente sonoro viene creato sul momento, improvvisando e sfruttando le culture e i generi solo come canovaccio e spunto di partenza, da cui elaborare e comporre in modo estemporaneo. È un bellissimo stimolo perchè non è assolutamente detto che tutto fili liscio, che escano le note giuste o le soluzioni migliori, semplicemente sono fotografia autentica del momento, rendendo ogni performance veramente inedita e irripetibile.
JC: Il tuo è un percorso di ricerca costante: quali prospettive ti sei dato per il futuro e se hai in programma di fare un disco con musicisti veri a cui aggiungi il tuo strumento?
GP: Le prospettive sono tante per il futuro. A grandi linee ho in mente temi che vorrei sviluppare per almeno i prossimi quattro dischi, vaghe idee per quelli successivi (anche perché il bello è anche lasciarsi travolgere da nuove idee, possibilità, stimoli). Con strumenti “veri” qualcosa di importante bolle in pentola con un musicista che considero una leggenda e che mi ha onorato con la sua attenzione, dopo aver sentito il mio lavoro sulla voce. Roberto del Piano ed io abbiamo in cantiere un progetto molto particolare per ora top-secret, che coinvolgerà diversi musicisti e strumenti, per un disco completamente dal vivo di musica improvvisata ma con un concept preciso. Appena sarà possibile tornare a fare musica dal vivo, penso ci saranno grosse novità in merito, nel frattempo raccogliamo adesioni e collaborazioni, definendo molto chiaramente la linea programmatica del progetto. Sarà qualcosa di molto emozionante, per me per primo!
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