Foto: la copertina del disco
“Going down the well”. Le direzioni musicali di MoonMot
Il sestetto MoonMot ha pubblicato “Going down the well”, uno dei lavori più interessanti proposti in questi ultimi tempi sulla scena europea: un lavoro capace di fondere riferimenti musicali diversi, esperienze variegate, libertà e composizione. Un lavoro dal vivo che coglie in pieno la vulcanica energia di sei musicisti, quattro britannici e due svizzeri, diretti in maniera essenziale alla costruzione di una musica capace di sintetizzare le numerose ispirazioni in qualcosa di personale. Il disco, pubblicato nel febbraio 2020 per Unit Records, vede all’opera Dee Byrne al sax alto, Simon Petermann al trombone, Cath Roberts al sax baritono, Oli Kuster al Fender Rhodes, Seth Bennett al basso e Johnny Hunter alla batteria. Abbiamo chiesto alla band di condurci all’interno del meccanismo che anima MoonMot: la sassofonista Cath Roberts e il trombonista Simon Petermann hanno accettato il nostro invito.
Jazz Convention: Cominciamo con il percorso che vi ha portato alla formazione della band: come vi siete incontrati e quando avete iniziato a suonare insieme?
Cath Roberts: La band si è formata quando Dee Byrne e io siamo state invitate a suonare al festival Jazzwerkstatt di Berna nel 2017. I due organizzatori, vale a dire Marc Stucki e Benedikt Reising, hanno messo insieme una collaborazione tra Regno Unito e Svizzera per un concerto speciale del festival. MoonMot è il risultato di questo incontro iniziale: dopo quel concerto, abbiamo sentito che ci sarebbe piaciuto proseguire insieme. Abbiamo portato la band in concerto al London Jazz Festival e poi, l’anno scorso, Simon Petermann ha organizzato un tour in Svizzera, durante il quale abbiamo registrato l’album che è uscito quest’anno.
Simon Petermann: La cosa eccitante per me è stata trovare una comprensione musicale reciproca, fin dall’inizio, con i nostri compagni di avventura britannici. Condividiamo molte idee riguardo alla strada musicale che vogliamo percorrere e al modo di lavorare insieme. L’equilibrio raggiunto tra struttura e libertà mi si addice molto. Non solo nella musica, ma anche nell’approccio generale al progetto.
JC: Quando si apre il vostro sito web, la prima affermazione che si può leggere – proprio sotto il nome della band – è “Contemporary European Jazz”. È un punto sul quale sono totalmente d’accordo, ma voglio ascoltare il vostro punto di vista…
CR: Beh, penso che questa sia probabilmente una domanda da rivolgere a Simon visto che è la persona che ha lavorato sul materiale promozionale… Penso che “Contemporary Jazz” (jazz contemporaneo – n.d.t.) dia una descrizione ampia e accurata dell’intera band e siamo sicuramente una band europea. La nostra musica è un punto d’incontro di approcci diversi: ognuno ha il proprio percorso e non tutti descrivono il proprio lavoro come jazz contemporaneo (me compresa…) ma MoonMot, nel suo complesso, si siede sotto quell'”ombrello”.
SP: È sempre delicato e arduo mettere la propria band e la musica che si suona sotto una definizione stringente. Per me, il termine europeo rappresenta l’internazionalità dei membri della band ma anche l’approccio con cui ci avviciniamo alla musica. Sono molti, a mio avviso, gli esempi di musicisti jazz improvvisatori europei che, con il loro contributo, hanno dato alla musica una direzione diversa. Voglio dire, è molto importante essere consapevoli della provenienza di questa musica e non voglio assolutamente negare che il Jazz sia una musica profondamente afroamericana. Negli ultimi 50 anni, in Europa, però, c’è stato uno sviluppo che ha condotto questa musica anche verso altre direzioni, in particolare se parliamo di improvvisazione. Penso, ad esempio, a Peter Brötzmann e ad Albert Mangelsdorff. In secondo luogo, nelle nostre composizioni i tempi dispari (tutti quei ritmi che non sono 4/4 o 3/4) sono ampiamente presenti e questo è un aspetto piuttosto europeo. Nella musica popolare dell’Europa Orientale, è possibile trovare molte varianti di diverse scansioni ritmiche.
JC: Ho estratto alcune parole dalla descrizione stilata dalla giuria di BeJazz e dalla vostra presentazione: “Energia”, “Improvvisazioni collettive libere”, “Attitudine punk”, “Esplorazione della libertà”, “Apertura”. E, da parte mia, vorrei aggiungere anche “Musica in Movimento” e “Versatilità”. In ogni caso, la vostra musica sfugge felicemente a qualsiasi descrizione rigorosa… Era questo uno dei vostri obiettivi?
CR: Deve essere una buona cosa se la musica è difficile da descrivere, credo! Per quanto mi riguarda, e so di usare un cliché tutto sommato molto logoro, penso che sia molto interessante e stimolante esplorare il punto in cui la musica composta incontra la musica improvvisata. Penso che tutti nella band siano concentrati su questo punto: a tutti noi piace comporre musica, in diversi modi, e portarla a un gruppo per poterla suonare ma, allo stesso tempo, tutti ci divertiamo molto a fare musica seguendo le circostanze del momento particolare in cui viene eseguita. La composizione prende forma collettivamente durante il concerto.
SP: Quando suono, la mia intenzione è quella di creare possibilità e di far accadere cose inaspettate. Salire sul palco e suonare sempre al limite per correre dei rischi, sfidando me stesso e i miei compagni di palco: questo rende la musica davvero eccitante. Con questo atteggiamento c’è sempre la possibilità che accada qualcosa che non avrebbe mai potuto essere pianificato. Soluzioni possibili solo quando si segue la musica. Naturalmente, prendendo questi rischi è possibile che non tutte le cose funzionino come vorresti. Alle volte, però, succede qualcosa di grandioso e inaspettato e l’intera band decolla e porta la musica in un posto di cui ignoravi persino l’esistenza: ecco, io suono proprio per vivere quelle sensazioni.
JC: Il lavoro sulle composizioni. Ognuno di voi appare come compositore in “Going down the well”. Si tratta di materiale preesistente o di brani composti per questa band? O un mix di entrambi?
CR: Penso che sia un mix di entrambi. Alcune persone hanno portato composizioni esistenti e alcune persone hanno scritto nuove cose per questa band. Durante i concerti dello scorso anno, abbiamo suonato la nuova musica, prima della registrazione: è stato una sorta di processo che ci ha portato a scoprire cosa fosse questa band e quale fosse la sua voce. Cosa siamo come unità. Abbiamo tutti portato pezzi dal differente approccio e li stavamo facendo diventare materiale della band. Non vedo l’ora di iniziare a lavorare su nuova musica ora che abbiamo suonato abbastanza insieme: sento che ora abbiamo il controllo su ciò che facciamo e, quindi, ora c’è la possibilità entusiasmante di scrivere musica che sia totalmente per MoonMot.
JC: Nella vostra musica, si trovano miscelati insieme molti riferimenti diversi, dal jazz alla musica contemporanea, dall’avanguardia al rock: quali sono i processi di costruzione della musica, sia per la composizione, che per l’arrangiamento e le dinamiche?
CR: Beh, questo è diverso per ciascuno di noi, ovviamente, e forse per ogni composizione. Mi piace creare strutture essenziali e scheletriche che possiamo integrare con gli interventi di ciascuno di noi quando suoniamo dal vivo. Quindi frammenti di melodia, cluster e riff che provengono davvero dalla musica per chitarra. Come ho detto, però, inizierò anche a provare nuovi modi di scrivere che funzionano specificamente per questo gruppo dal momento che conosco meglio la nostra “sostanza”.
SP: Quando ho composto il mio brano presente nel disco, la band aveva appena suonato due concerti insieme. Quindi sapevamo davvero poco l’uno dell’altro. Il mio approccio è stato totalmente diverso da quello di Cath: ho cercato di seguire le strutture delle canzoni e, quindi, c’è molta meno flessibilità nella mia musica rispetto a quella di Cath. Ho molte idee per i nostri lavori futuri: abbiamo suonato insieme abbastanza di recente e, per questo, le mie idee si adatteranno in modo diverso alle voci dei singoli musicisti, dal momento che scrivo i brani tenendo in mente il loro stile.
JC: Allo stesso modo, vorrei anche chiedervi della combinazione tra suoni acustici, elettrici ed elettronici dal vivo?
CR: Ah, questo non è davvero il mio campo: suono il sax baritono totalmente acustico. Dee, Simon e Oli usano tutti l’elettronica da diverso tempo ed è davvero interessante ascoltare ciò che portano al suono di MoonMot. La musica della band viaggia verso posti che probabilmente non avremmo mai raggiunto suonando solo gli strumenti acustici. La sfida quindi è come fondere i suoni elettronici all’interno di un ensemble acustico.
SP: Sto esplorando l’elettronica da quasi un decennio, ormai. Durante questo periodo, ho utilizzato idee e soluzioni diverse e ho cercato di integrarle all’interno di una vera e propria costellazione di gruppi differenti. Ho sempre avuto l’obiettivo di usare questi suoni in un contesto come MoonMot e sono contento di quello che stiamo realizzando e di come funziona. È una coincidenza felice il fatto che anche Dee e Oli lavorino molto con l’elettronica: ci dà la possibilità di modificare il suono della band, rendere la musica più inaspettata e sorprendere il pubblico. Sempre cercando soluzioni “gentili” e musicali. Quello che mi interessa principalmente è trovare le combinazioni tra i suoni elettronici e acustici, trovare il modo in cui fonderli e farli interagire.
JC: L’incontro di sei diverse personalità permette di creare una fertile sintesi tra le idee: come si sviluppa, però, il lavoro della band dai primi passi ai risultati finali?
CR: Sì, hai ragione. E penso che la musica si stia sviluppando soprattutto attraverso i concerti dal vivo. Anche i risultati finali sono diversi ogni volta e questo è un altro aspetto fantastico per questo tipo di musica.
SP: Esatto. La musica deve maturare dal vivo sul palco. Durante le prove, il nostro obiettivo è rendere chiara a tutti l’idea generale del compositore e arrivare a conoscere quelli che potrebbero essere i punti cruciali delle singole parti e via dicendo. Ma poi, la musica va suonata dal vivo, con tutte le interazioni e gli interventi dei singoli.
JC: “Going down the well” è stato registrato dal vivo. Credo sia una maniera efficace per mettere a fuoco in modo chiaro l’energia di una band come la vostra. Quali sono stati i motivi che vi hanno portato a questa scelta?
CR: Preferisco quasi sempre l’energia che arriva in una registrazione dal vivo. Non mi piace di apportare modifiche in fase di editing, aggiungere sovraincisioni e cose simili nei miei dischi perché la musica che realizzo si concentra fortemente sull’improvvisazione e sulle condizioni particolari del momento in cui viene suonata. E quelle non le puoi modificare! Lo stesso è successo con MoonMot. Anche se abbiamo fatto alcune registrazioni in “studio” senza pubblico, personalmente preferisco quelle che abbiamo fatto durante il concerto e penso che l’album sia composto principalmente da quelle. Simon potrà aggiungere, sicuramente, altri particolari su questo punto…
SP: Il motivo per cui abbiamo fatto una registrazione dal vivo è stato quello di catturare l’energia del momento. Ci siamo incontrati il martedì di quella settimana con tutti i nuovi brani, quindi abbiamo provato e suonato tutte le sere fino al sabato, quando abbiamo fatto la registrazione dal vivo. Abbiamo poi avuto l’occasione per continuare a registrare la domenica nella stessa sala. Sicuramente, più della metà della musica che si ascolta nel disco proviene dalla registrazione dal vivo. Ho un approccio diverso rispetto a Cath. Per me, la performance dal vivo e la musica registrata costituiscono due diversi tipi di media, due diversi modi di ascoltare la musica. Quando ascolti la musica a casa non puoi vedere i musicisti esibirsi e quindi l’esperienza è totalmente diversa. Questo aspetto giustifica, a mio avviso, la possibilità di intervenire con un po’ di editing sulla musica registrata. Penso che nella mia composizione, ad esempio, l’assolo e il resto del brano non siano presi dalla stessa take. La cosa bella di questa band è che non esiste un modo giusto o sbagliato per farlo: ci sono almeno sei modi. E ogni modo è ben rispettato e supportato dal resto della band.
JC: Ogni membro di MoonMot ha la propria carriera. In che modo la musica di MoonMot influenza l’approccio personale di ciascuno di voi alla musica?
CR: Ogni nuovo contesto musicale influenza il tuo lavoro. Quindi suonare con MoonMot mi ha fatto pensare a modi di scrivere musica appositamente per MoonMot. Conoscere le personalità che suonano in un gruppo è interessante e può portare la tua scrittura su nuovi percorsi…
SP: Penso che l’aspetto più importante di questa esperienza sia la possibilità di incontrare persone che provengono da un’altra parte dell’Europa. La Svizzera è piuttosto piccola e restiamo sempre un po’ nella stessa bolla. Suonare con persone che solitamente lavorano in altri contesti allarga i miei orizzonti. Quando mi esibisco con MoonMot, inizio a sviluppare nuove idee. E queste naturalmente continueranno a vivere negli altri progetti di cui faccio parte. Penso, soprattutto, che ad ispirarmi di più sia la possibilità di stare accanto a musicisti tanto fantastici, appassionati e umili e di interagire giorno dopo giorno con loro.
JC: Negli ultimi cinque o dieci anni, c’è stata un’enorme e sfaccettata produzione di nuova musica da parte di giovani ed emergenti musicisti jazz europei. Immagino che MoonMot possa essere considerato all’interno di questo ambito – e, secondo me, come uno degli atti più interessanti. Qual è il vostro punto di vista su questa scena? Suppongo che possa anche esserci un approccio diverso da parte dei membri del Regno Unito rispetto ai membri svizzeri della band…
CR: (ride – n.d.t)… Beh, termini come “giovane” e “emergente” sembrano essere usati per descrivere tutti coloro che hanno tra i venti e i cinquant’anni, per descrivere tutti coloro che suonano da un anno o da venticinque! Mi chiedo se un artista finirà mai di emergere… Forse sarebbe la fine della loro carriera! Certo, sono etichette che possono probabilmente essere usate per questa band. Personalmente non mi vedo parte di una coorte di musicisti jazz contemporanei: mi sento come se fossi parte di una diversa sottosezione della scena britannica che si sta concentrando sulla musica totalmente improvvisata e sulla sua intersezione con alcune strutture composte. Non so quale potrebbe comunque essere la definizione. Come dici tu, forse i membri svizzeri della band avranno qualcosa di totalmente diverso da dire su questo! Quindi Simon può darti quella prospettiva.
SP: Buon punto, Cath! Penso che sia molto difficile sentirsi parte di qualcosa tanto frammentato quanto la scena jazz. Tutti stanno lottando per integrare la propria passione per questa musica con le loro vite. Alcuni stanno facendo meglio di altri ma, a volte, è solo una questione di fortuna. Mi piacerebbe anche lavorare su una consapevolezza riguardo a cosa sia il “jazz svizzero” nel 2020 o cosa sia il “jazz europeo” nel 2020. Come possiamo stare insieme e costituire una scena? Come possiamo sostenerci a vicenda e dare a questa musica e a questa forma d’arte il riconoscimento nella società? Mi vedo come una persona che lavora sodo per dare vita e concretezza alla propria passione. E penso che stiamo realizzando una musica vivida che nasce sul palco proprio in quel momento. Musica che viene suonata per quel particolare pubblico in quella particolare occasione. Questo è ciò che la vera musica significa per me.
JC: E quali sono i rapporti con altre band e altri musicisti delle nuove generazioni?
CR: Posso proseguire con il ragionamento della risposta precedente. Tutti e quattro i membri britannici di MoonMot probabilmente descriverebbero la nostra relazione con la scena britannica, qualunque cosa pensiamo che sia, in modi diversi…
SP: Conduco un programma radiofonico su una stazione radio locale in cui propongo molti brani di questi musicisti e dare così a questa scena una piattaforma per uscire allo scoperto. E vorrei rafforzare quell’idea di ambiente comune in cui siamo “contenuti” tutti insieme.
JC: Dopo l’uscita del disco, di solito, si porta la musica prodotta in concerto dal vivo. Come state vivendo come band questo momento? E come avete ridefinito i vostri piani?
CR: Solitamente, nel Regno Unito si lavora ad un grosso blocco di date intorno al momento della pubblicazione, quindi nei giorni immediatamente precedenti l’uscita del disco oppure nella settimana effettiva della pubblicazione. Ed è esattamente quello che MoonMot ha appena fatto, quindi mi sento davvero fortunata ad aver finito questa fase, vale a dire il tour di concerti, prima che la crisi del Coronavirus colpisse il mondo. La band è ora in un periodo di inattività, pianificazione e riflessione per preparare per la prossima fase – che è quello che, in fin dei conti, avremmo fatto comunque. È incredibile come siamo riusciti a pubblicare e a far girare l’album nell’ultimo minuto possibile! Ovviamente, la situazione attuale ha comunque ridefinito i nostri piani. Noi – e sto parlando di tutti gli artisti adesso e, in generale, di ogni persona – ora non possiamo sapere cosa succederà in futuro, nemmeno la prossima settimana. Le strutture, le pianificazioni, i ritmi del nostro lavoro sono stati tutti spazzati via. Quindi come gruppo possiamo lavorare sulla pianificazione speculativa rispetto alle cose che vorremmo fare in seguito, ma non possiamo pianificare o organizzare in senso concreto. Possiamo lavorare per scrivere nuova musica. È un momento molto strano e inquietante e tutti dobbiamo superarlo e, dall’altra parte, non vediamo l’ora di suonare di nuovo. Questo è tutto ciò che ciascuno di noi può fare.
SP: Sì, ci sentiamo estremamente fortunati ad aver finito il nostro tour prima del lockdown e ci sentiamo vicini a tutte quelle persone che hanno messo così tanto lavoro, energia e passione nei loro progetti e ora non possono promuoverli o realizzarli concretamente. Penso che dopo questa crisi tutto sarà molto diverso. Stiamo cercando di anticipare ciò che sta arrivando e prepararci per quel momento. L’obiettivo è riunire la band il prima possibile per lavorare su musica nuova e iniziare così un altra fase in cui torniamo a comporre, a suonare e ad entrare in contatto con le persone attraverso la nostra musica.
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