Ripartire nel nome di Massimo Urbani

Foto: Fabio Ciminiera









“Ripartire nel nome di Massimo Urbani

Camerino – 27/28.6.2020

L’edizione 2020 del Premio Internazionale Massimo Urbani ha fatto i conti con la situazione davvero fuori dall’ordinario di questi mesi. In dubbio fino alla fine di maggio, dopo aver annullato le semifinali di Torino e Roma a causa della pandemia, il concorso ha vissuto una delle edizioni più partecipate alle quali mi sia capitato di assistere. La voglia di tornare a fare musica dal vivo – per molti dei protagonisti, si è trattato del primo evento dopo l’uscita dal lockdown – e di condividerla “in presenza” ha fornito una spinta e una motivazione del tutto particolari e difficilmente provata in altre occasioni. Si deve poi aggiungere il fattore proposto dall’incontro tra musicisti di generazioni diverse ha messo a contatto l’esperienza di una istituzione del jazz italiano come Gegé Munari con l’entusiasmo dei concorrenti e i percorsi artistici dei musicisti del trio residente – formato da Massimo Moriconi al contrabbasso, Massimo Manzi alla batteria e Seby Burgio al pianoforte – e dei due presidenti di giuria Nico Gori e Dino Rubino entrambi già vincitori del Premio.


Il vocabolario comune e condiviso degli standard, come di consueto, è stato al centro del Premio Internazionale Massimo Urbani anche quest’anno. Un vocabolario riletto, però, attraverso le differenti anime espressive dei vari protagonisti e con una scelta di brani, soprattutto per quanto riguarda il concorso, meno scontata di quanto visto in altre occasioni. Un vocabolario interpretato secondo un ventaglio variegato di prospettive – più o meno personali o vicine alle tradizioni, a seconda dei casi – nelle esibizioni dei singoli concorrenti e con una solidità media per quanto riguarda il linguaggio e le sue declinazioni. Ogni musicista ha portato il proprio mondo espressivo nei due brani proposti in finale: un momento concentrato – breve e importante – in cui le inclinazioni e le intenzioni di ciascun finalista sono emerse in modo chiaro e riconoscibile per confluire poi in un racconto complessivo imperniato su buoni fondamentali.


Il primo posto nella competizione è andato alla sassofonista Sophia Tomelleri. Al secondo posto si è classificato il pianista Andrea Domenici, vincitore anche del Premio della Critica, e al terzo, invece, il sassofonista Pietro Mirabassi. Il Premio Social (con oltre 10000 voti in totale) è andato al chitarrista Giuseppe Cistola, il pianista Francesco Pollon si è aggiudicato il Premio Fara Music e il trombettista Cesare Mecca ha vinto la borsa di studio per Nuoro Jazz. Entrambi i presidenti di giuria nel consegnare i premi hanno sottolineato la ricchezza di giovani talenti nel novero dei concorrenti.


Alcuni dei finalisti presenti hanno già affrontato palchi e contesti importanti e si può ritenere facilmente che ritroveremo, a breve, molti di loro nei cartelloni delle rassegne dei prossimi anni. Come è stato già per molti vincitori e partecipanti delle passate edizioni. E come è stato, naturalmente, per il nume tutelare del concorso – Massimo Urbani, appunto.


La formula seguita dalle serate della rassegna nelle ultime stagioni è stata modificata per ottemperare alle norme imposte dall’emergenza sanitaria. I finalisti si sono perciò esibiti in due serate successive e sono venuti meno alcune iniziative impossibili da replicare come il Premio del Pubblico presente in sala oppure il concerto del vincitore il giorno successivo la proclamazione. I concerti del programma si sono spostati al pomeriggio per rendere possibile la gestione ordinata dei momenti ed evitare incontri troppo numerosi sul palco. Lo spazio aperto e ampio della Rocca Borgesca, già apprezzato lo scorso anno per le potenzialità logistiche e la vista, quest’anno è stato un alleato prezioso nell’organizzazione di tutte le attività.


Come è noto, il premio rende omaggio ad una tra le figure più importanti del jazz italiano. Un musicista, Massimo Urbani, unico per il suo talento e la sua capacità di essere moderno, creativo e personale con i materiali della tradizione del jazz, immediatamente riconoscibile per la forza trascinante con cui affrontava il palco e la musica. E va anche sottolineata la sua “collocazione generazionale”, a metà strada tra le prime ondate del jazz italiano e quelle attuali. E, poi, naturalmente, tutti gli aspetti più squisitamente artistici come il suono, il virtuosismo, lo stile o l’intensità.


Dal 1993, anno della sua scomparsa, ad oggi, sono talmente tanti gli aspetti che sono cambiati nel mondo – e non solo in quello del jazz… – da rendere praticamente impossibile ogni paragone diretto, ogni confronto non mediato. Restano però presenti alcune linee essenziali – come la solida precocità e la prepotenza espressiva con cui si è fatto conoscere ed è diventato uno dei protagonisti del panorama jazzistico all’inizio degli anni settanta – che rappresentano in pieno la parabola fulminea del giovane musicista emergente che vuole esporsi all’attenzione del pubblico e dei suoi colleghi e mostrare quanto abbia da dire. E sono queste le linee che danno ancora oggi il valore e, se si vuole, la necessità dell’intuizione avuta da Paolo Piangiarelli nell’istituire il Premio pochi anni dopo la scomparsa del sassofonista e che restituiscono tutta la consistenza del lavoro realizzato dall’Associazione Musicamdo nel proseguire il cammino già intrapreso.



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