Aldo Bagnoni, “connettersi” con il presente

Foto: la copertina del disco










Aldo Bagnoni, “connettersi” con il presente

“The Connection” è l’ultimo progetto di Aldo Bagnoni, un disco di inaudita freschezza musicale e compositiva, che attualizza decenni di jazz attraverso un linguaggio diretto, melodico e cantabile. Una piacevole sorpresa che lo rende uno dei migliori dischi del 2020.




Jazz Convention: Aldo Bagnoni, tu sei un batterista e compositore jazz di ampie vedute nonché un intellettuale impegnato su altri fronti artistici. Come concili questi mondi?


Aldo Bagnoni: Se lo dici tu, che hai curato nel tuo “Dizionario del Jazz” una voce che mi riguarda, sarà vero! Beh, diciamo che di questi tempi, essere definito intellettuale potrebbe essere persino pericoloso, ma ti ringrazio egualmente… Scherzi a parte, credo che se c’è una cosa che il Jazz ci insegna, o almeno ha insegnato a me, è che l’ampiezza di vedute e di ispirazioni è congenita; è qualcosa insita nell’affrontare una musica come questa. Alla fine dei conti, una composizione, ma anche uno stesso solo improvvisato in un brano, o ancor meglio in un momento di improvvisazione totale, hanno a che vedere con una narrazione. E allora, scrivere musica o racconti, o poesie, finisce per avere la stessa valenza ideale, devi “raccontare una storia”, come erano soliti dire i jazzisti della vecchia guardia. È vero che la musica è un’arte “non semantica”, ma solo se lo intendi in senso esplicito, mentre invece i concetti che implicitamente vengono espressi sono a volte estremamente chiari, manifesti. E a volte, senza che questo debba essere necessariamente obbligatorio, visto che comunque esiste musica strumentale incredibile, in ogni stile possibile, si può anche abbinare un testo, in prosa o in poesia, ad un brano, come faccio io in parte della mia produzione artistica, e questo prima ancora che essere considerato erroneamente “un arricchimento”, finisce per essere uno spostamento prospettico, uno sguardo differente che l’artista getta sul proprio prodotto, un’alternativa ulteriore nel proprio dialogo comunicativo con il fruitore. Da questo rapporto più ampio abbiamo tutti da guadagnarne, insomma.



JC: Come jazzista ti senti più vicino alla matrice afroamericana o alla corrente europea? Quali sono, o sono stati, i tuoi musicisti di riferimento?


AB: Quando da ragazzo mi sono avvicinato alla musica afroamericana, provenendo dall’ascolto di musica classica e lirica, rock, blues, progressive e anche cantautorato italiano o straniero, l’ho fatto su due binari paralleli e coesistenti: da un lato il cosiddetto jazz-rock, con le sue varie diramazioni commerciali o più sperimentali, spesso appunto europee, e dall’altro il jazz più mainstream, ovviamente afroamericano, statunitense, principalmente quello degli anni Cinquanta e Sessanta, per poi tornare indietro allo swing e al New Orleans. Non ho avuto, credo per mia fortuna, un percorso lineare, didascalico, nell’ascoltare e poi conoscere le vicende di questa musica, e neppure un approccio di natura “purista”, non ho mai sentito l’estrema necessità di distinguere gli artisti secondo precise scuole, pur essendo consapevole che anche nel Jazz vigeva l’abitudine di chiamare i vari periodi storici secondo gli stili maggiormente in voga nel momento. Mi viene subito in mente quel famoso poster che ho visto campeggiare in varie scuole di musica, sale prova e soggiorni di singoli musicisti, l’albero genealogico del Jazz, riportante nomi di musicisti e di stili disposti lungo tronco e rami di una pianta in continua, inarrestabile crescita: ma queste mappe sono un escamotage, si tratta solo di schemi a fini didattici, rigidi, ordinati cronologicamente. Mentre la vita dell’Uomo è più spesso diacronica e sincronica, le idee, gli avvenimenti, le creazioni coesistono e coincidono in modo tale che è davvero difficile mantenerli distinti e comprensibili secondo categorie che io definisco, alla fine, eminentemente merceologiche. La musica in questo non fa eccezione. Pertanto, anche riguardo alle provenienze geografiche, anche se in un certo periodo sono stato molto suggestionato dalla questione – non sempre ben posta – del “jazz europeo”, sono oramai convinto che la singola personalità, che deriva da una singola storia artistica e umana, sia ciò che conta e che fa la differenza. Oggi si è tutto mescolato, le influenze sono molteplici come mai prima, per merito (qualcuno direbbe per colpa) anche del web, oltre che della possibilità di viaggiare velocemente e a basso costo: e quando vedo persone, musicisti, che si auto costringono in un ambito ristretto, senza capire che la varietà delle ispirazioni e l’ampiezza della loro comprensione è un punto di non ritorno, piaccia o no, rimango sconcertato, ancor prima che trovare questo atteggiamento ridicolmente anacronistico. Se proprio devo dichiarare una mia appartenenza, a livello seminale, posso senz’altro dire di provenire dal versante afroamericano della concezione musicale, ma soprattutto strumentale: artisti come Jack DeJohnette, Max Roach, Elvin Jones, Art Blakey, Shelly Manne, Tony Williams, Ed Blackwell, Mel Lewis, Peter Erskine, Paul Motian, per dirti i primi (sin troppo ovvi, ma indiscutibili) che mi vengono in mente, mi hanno segnato profondamente. Ma sarebbe così bello che venissero citati anche quei batteristi più di nicchia, che hanno saputo anche loro dire una parola personale, come Pheeroan ak Laff/Paul Maddox, Freddie Waits, Joe Chambers, Bob Moses, e tanti altri ancora. Ma ovviamente ho avuto riferimenti da altri giganti di questo strumento, provenienti da altre latitudini geografiche e culturali, musicisti dalla spiccata originalità e sensibilità come Jon Christensen, Daniel Humair, Tony Oxley, Han Bennink, Pierre Favre, Gunter “Baby” Sommer o Andrea Centazzo (con cui ho fatto nel 1977 il mio primo seminario strumentale!): e anche in loro, comunque, in varia misura e con vari esiti, ritrovi necessariamente elementi afroamericani, che sono imprescindibili se vuoi affrontare il mondo musicale del Jazz. Oggi mi piace seguire soprattutto le nuove tendenze, con a volte sconcerto, e altre sana invidia, per le gesta di persone come Brian Blade, Jojo Mayer, Benny Greb, Eric Harland, Mark Guiliana… E comunque, ogni musicista, se sincero e intenso, ha qualcosa da insegnarti, compresi certi colleghi, magari meno noti dei soliti nomi che girano di continuo, che vivono nella tua area geografica o culturale. In Italia apprezzo molto brillanti colleghi come Leonardo De Lorenzo, Enzo Carpentieri, Pietro Iodice, Giuseppe La Pusata, per non parlare di un veterano come Ettore Fioravanti… Mi fermo qui, questa è un’intervista, non un elenco telefonico.



JC: Quanto c’è della tua terra, la Puglia, nel jazz che componi e suoni? Aggiungerei che l’originalità del progetto è contraddistinta dalla circolarità melodica, di matrice folk, della musica e da una propensione al canto che richiama l’oralità afro mediterranea …


AB: Davvero non saprei rispondere. Non credo, come dicevo prima, nelle appartenenze circoscritte, né in termini stilistici, né tantomeno culturali. Ho trovato illuminante, per quanto mi riguarda, un saggio di Maurizio Bettini, “Contro le radici”, che smonta la mitologia delle tradizioni necessitate e inamovibili. Lo consiglio, in questa era di grandiosi e tragici equivoci sovranisti e pseudopatriottici. Ciascuno ha una propria storia, unica e irripetibile, e gli stereotipi sono un meccanismo posticcio che ci ingabbia. È evidente che io non sia afroamericano, sono nato e cresciuto nel Sud dell’Italia, e questo implica ovviamente qualcosa nella mia sensibilità, nell’attitudine a relazionarmi col mondo che ho sviluppato nel mio percorso sino ad oggi. Sonorità e ritmi – anche sotto il profilo linguistico, ma non mi riferisco in questo caso alla musica -, implicazioni semantiche e simboliche, un certo approccio, un certo sentire, un certo esprimermi, una certa inflessione insopprimibile sono sicuramente frutto del mio rapporto con questa terra, sarei stupido se lo negassi. Ma tutto ciò è un substrato, ineludibile finché si vuole, certo, su cui comunque poggia tutta una serie di esperienze e riferimenti molto distanti da un’idea più standardizzata di “musicista del Sud”, se ho compreso bene il senso della domanda. Quello che posso dire con sicurezza è che non ho pensato razionalmente a includere sentimenti e suoni della mia terra nella musica che compongo: la mia sinora è stata appunto definita più volte “di carattere mediterraneo”, ed evidentemente quelle inflessioni sonore e psicologiche ci sono anche, nei miei brani, ma non seguo un filone come operazione commerciale, e sento di avere influenze molteplici, e a volte contrastanti in ciò che compongo. La mia musica è semplicemente un rifluire dell’inconscio, un restituire ciò che mi è stato donato da decenni di esperienza di ascolto su disco e dal vivo, e di ciò che è rimasto stratificato in ere geologiche nel mio cervello e nel mio animo. In essa convivono e coesistono influenze e istanze diversissime tra loro, e il termine “composizione”, mai come in questo caso, si rivela una perfetta metafora linguistica: comporre le differenze, persino le divergenze, le ispirazioni più complesse e distanti. E allora, in questo mio lavoro, potrai trovare una ballad jazz più modernamente canonica al fianco di un brano che, a me personalmente (ma solo dopo averlo composto e rifinito) ha ricordato il Novecento europeo di un Erik Satie, oppure un brano centrato su di una pulsazione jazz e latin affiancato ad un tema che si sviluppa invece a cavallo di ritmi dispari e ispirati all’odierna drum’n’bass; o ancora, sviluppi armonici per gli improvvisatori che fanno riferimento al più puro jazz modale degli scorsi anni Sessanta o invece su sequenze di accordi che richiamano il tango moderno. E in effetti, come ricordi tu stesso, mi sono accorto, man mano che procedevo nella mia attività compositiva, iniziata tardivamente nei primi anni Duemila, appunto di una certa propensione alla melodia, alla cantabilità: a questo proposito, qualche mio brano ho in mente di inciderlo anche in versione cantata, ad esempio Heart on a Mountain e The Dolmen and the Sea hanno un loro testo, scritto sempre da me, e sono già in lista di attesa. Insomma, un mondo composito, che è il mio ed è sincero, perché richiamato a galla da un’interrogazione spontanea e profonda, e non preordinato a tavolino, ribadisco, secondo mode e convenienze: ed al comporsi del suo mosaico ha finito per sorprendere me per primo. Quando poi mi ritrovo – sempre meno, e non sempre per mia scelta, ma tant’è – a suonare per altri, cerco di tenere le antenne dritte, e partendo dal mio retroterra culturale (che, ripeto, è jazzistico), mi sforzo di trovare un equilibrio nel mio apporto, un senso comune che serva al progetto musicale altrui, permettendo al tempo stesso a me di esprimere il mio linguaggio strumentale. Se posso, suggerisco qualche idea, la collaborazione è un momento prezioso, se gestito nella maniera corretta e col necessario rispetto.



JC: È giusto definire il tuo ultimo disco The Connection una sintesi, direi ben riuscita, degli ultimi cinquant’anni di jazz, e non solo?


AB: Vorrei tanto che l’ipotesi sottesa a questa tua domanda, cioè che si tratti di una sintesi ben riuscita, fosse vera! Non sta certo a me dirlo, e se lo facessi forse sarei piuttosto presuntuoso! Ma volendola dare per assodata, perché sicuramente la mia musica si riferisce idealmente a ciò che è accaduto nell’arco della mia vita artistica (oltre quarant’anni di attività, tra apprendistato e livelli successivi), a questo punto provo a rilanciare: come dicevo prima, provengo, già poco più che adolescente, da un’esposizione a tanti stili jazzistici – per fare un esempio, nel 1981, dopo un periodo passato tra hard bop e free, mi ritrovai a suonare per oltre un anno dixieland, esperienza devo dire molto formativa, perché mi ha permesso di capire cosa mi mancava da batterista nell’affrontare la musica afroamericana, e inoltre sempre in quel periodo compresi cosa mi interessava di più e di cosa invece avrei più volentieri fatto a meno: scegliere, per un artista, è fondamentale, e lo capii bene allora, riuscendo a metterlo però in pratica solo dopo diversi anni, man mano che maturavo un pensiero più complessivo sulla Musica, passando attraverso vari generi di esperienze professionali, dalle più interessanti (big band, gruppi fusion) alle più seriali (matrimoni, ricevimenti, piano bar), per approdare ai linguaggi del jazz moderno e contemporaneo, così come dell’improvvisazione totale. Ho quindi apprezzato certe istanze musicali del jazz nella sua interezza, che partivano appunto dalle sue prime fasi: ho sempre gustato il vigore di Coleman Hawkins, la raffinatezza di Fletcher Henderson, ho amato “pazzamente”, per citare lo stesso Duke, la musica dell’orchestra di Ellington (praticamente in tutte le sue fasi, da Black and Tan Fantasy a The Nutcracker), per poi arrivare al free di Ornette Coleman, Cecil Taylor e l’avanguardia radicale europea dei vari Alexander Von Schlippenbach, Evan Parker, Peter Brötzmann, Derek Bailey, Han Bennink, Willem Breuker, passando attraverso le frenesie bop di Charlie Parker e Thelonious Monk, il calligrafismo colto del Modern Jazz Quartet, l’hard bop feroce di Art Blakey e Benny Golson, la visione ampia di Oliver Nelson, Eric Dolphy, George Russell, Don Ellis, Carla Bley, le aperture di John Coltrane, Wayne Shorter, Herbie Hancock e Freddie Hubbard, il jazz rock della Mahavisnu Orchestra e dei Weather Report, e poi dei Soft Machine, dei Nucleus, il jazz etnico di Joe Harriott, il lirismo e l’avventurosità di Kenny Wheeler, John Surman, Terje Rypdal, Louis Sclavis, John Abercrombie, Bill Frisell, Tomasz Stanko, gli intrecci spigolosi e spregiudicati di Dave Liebman, Michael Brecker, Dave Holland, Steve Coleman, Tim Berne, John Scofield, Nguyên Lê e così via, sino all’odierno work in progress di Brad Mehldau, Kurt Rosenwinkel, Maria Schneider, Kenny Werner, Chris Potter, Brian Blade. Mi piacerebbe davvero avere nel puzzle musicale che mi porto dentro, che ho espresso e spero di continuare ad esprimere in seguito, un frammento minuscolo della grandezza e della creatività di tutti i nomi che ho citato. E non soltanto dei loro, evidentemente”.



JC: Fondamentale è anche il contributo di Mauro Tre (pianoforte), Emanuele Coluccia (fiati) e Giampaolo Laurentaci (contrabbasso) alla definizione del suono essendo loro musicisti non legati esclusivamente al jazz ma con esperienze in altri ambiti musicali. Inoltre posseggono un retroterra musicale, moderno, che richiama le sonorità della secolare tradizione salentina…


AB: Sì, a ciascuno di loro devo senz’altro la concretizzazione di questa musica, con una menzione speciale per Emanuele Coluccia, un musicista completo e preparatissimo, di ampia esperienza in differenti situazioni e organici (dal jazz all’etnico, dal piccolo gruppo alla banda all’orchestra sinfonica), che coinvolsi sin dalle primissime fasi, e che abbracciò con slancio questa musica, aiutandomi a metterla a punto, dandomi una mano sotto il profilo delle rifiniture armoniche. Del resto, credo che un leader (un termine che mi piace sino ad un certo punto), diciamo un responsabile di progetto, debba innanzitutto preoccuparsi di scegliere i musicisti più adatti, quindi coinvolgere chi sappia calarsi convintamente nel contesto, farsene coinvolgere ed essere linguisticamente in grado di interpretare le esigenze della musica proposta, e anzi arricchirla con la propria creatività, che va sempre stimolata e mai repressa, se si vuole ottenere un risultato che sia gratificante sia per chi suona che per chi ascolta. E in questo, Emanuele, così come Mauro Tre e Giampaolo Laurentaci si sono rivelati musicisti tecnicamente preparati ad ampio spettro, quanto dotati di grande espressività artistica, e hanno saputo apportare un valore aggiunto, di cui sono davvero soddisfatto. Riguardo al Salento, beh, quella è stata una scelta naturale: quella terra, e i suoi artisti, sono dotati di quella energia ma anche di quella, come dire, “gentilezza d’animo” che ricercavo nei miei partner ideali. Caratteristiche che io, barese, non sempre ho ritrovato facilmente nella mia zona, che è caratterizzata da maggior asprezza (se non addirittura freddezza) espressiva, forse è l’eccessivo inurbamento di Bari e provincia a indurre questo stato d’animo nei suoi abitanti: e non era quel genere di espressione che mi serviva in quel momento, per realizzare quel risultato che oggi si può ascoltare nel mio disco.



JC: The Connection, all’ascolto, dà l’impressione di essere un disco meditato, curato nei minimi particolari e che la sua gestazione ha richiesto tempo…


AB: Sì, ma non più di tanto, nella sua fase realizzativa: complessivamente, poco più di un paio di mesi di prove intense, e tre giorni in sala, missaggio compreso. L’unica cosa che mi dispiace è non aver avuto l’opportunità di testare il materiale dal vivo prima di registrarlo. Ma devo dirti che non sono molto bravo a trovare lavoro, date le mie scelte artistiche sempre in controtendenza, che l’ambiente jazzistico italiano, in generale dominato da gusti convenzionali e mode effimere, non sembra apprezzare particolarmente. Eppure, questo lavoro oggi sta ricevendo dalla stampa specializzata una certa attenzione – ne è la prova anche questa tua intervista – e un ottimo consenso generale: ma la pigrizia mentale di tanti (presunti) “addetti ai lavori” è dura da vincere, e le scelte sono fatte soprattutto secondo criteri di cassetta (non mi spingo a dire di ignoranza, o peggio), il che è avvilente, sotto il profilo culturale, tralasciando il fatto che anche gli artisti non sono puro spirito, e devono pagare le bollette come tutti gli altri lavoratori. Tornando al mio lavoro compositivo, la maggior parte dei pezzi risale a parecchi anni fa, come dicevo ai primi anni Duemila, almeno più sistematicamente, in un momento in cui sono stato costretto da circostanze di salute, e non solo da queste, a interrompere per un certo periodo la mia attività di performer live e a iniziare un periodo di riflessione, se vuoi anche di riconversione, e a mettere meglio a fuoco la mia posizione artistica. Ho scoperto questa mia vena compositiva, anche se mi ero sempre dedicato alla gestione degli arrangiamenti di gran parte dei brani degli organici che mi ero trovato a fondare e dirigere, magari a quattro mani con qualche altro collega, che però più spesso non mostrava di volersi dedicare a quegli aspetti: diversi musicisti, se non proprio la maggioranza, sono spesso più impegnati a guardarsi l’ombelico e a suonare i loro assoli nella maniera più tecnica possibile, che a tenere sotto controllo espressivamente il quadro complessivo. Iniziare a scrivere, prendendoci man mano molto gusto, e proseguire sino ad accumulare parecchio materiale, arrangiamenti originali di brani più o meno celebri quasi completamente trasfigurati, è stato un processo molto naturale, e direi anche catartico.



JC: Il disco è composto da dieci brani originali. Tutti hanno una storia alle spalle: ce le racconteresti?


AB: In effetti, sono nove, dato che il lavoro si apre e si chiude con lo stesso brano, Clarabella, in due differenti versioni, ideato in maniera embrionale quando avevo meno di dieci anni, e rimastomi in testa in maniera subliminale per decenni. La storia, che proviene da un vecchio albo di Topolino, riguarda una serenata che Orazio chiede a Topolino di cantare appunto a Clarabella, la sua fidanzata con cui aveva litigato (una sorta di Cyrano in chiave Disney, insomma). Il testo beffardo e offensivo (e il conseguente contesto espressivo, che credo questo tango/beguine possa restituire), che recito e canticchio nell’epilogo del cd, finirà per far litigare ancora più furiosamente i due fidanzati: e da questa vicenda traggo l’insegnamento che bisogna sempre saper scegliere a chi chiedere una mano, quando sei in difficoltà, per non peggiorare le cose. Cappello eolico, invece, si riferisce a quella copertura sui comignoli delle case, che serve ad evitare i riflussi di fumo nelle canne fumarie: osservandone il moto vorticoso (che ho cercato di ricreare ritmicamente nello sviluppo tematico e solistico), ed ascoltandone il soffio nel camino, ne ho tratto un senso di inquietudine, mitigato dalla considerazione che stando in casa si è al riparo da questo vento a volte così furioso. Ed è così, ce lo ha dimostrato il recente lockdown: la casa è uno dei pochi posti dove si può stare al riparo dalle bufere che la vita ci scaglia addosso, e riconsiderando questo aspetto si può imparare a rivalutarla anche simbolicamente, laddove a volte starci dentro a lungo può invece esserci apparso opprimente e limitante. This is my place, invece, riguarda la consapevolezza che ciascuno di noi dovrebbe avere nello stare a questo mondo, ed è l’unico brano che ho arrangiato assieme ad Emanuele e Mauro. Ciascuno, discutendo sulla struttura sia tematica che solistica, ha saputo trovare un modo di rapportarvisi, fornendo un contributo all’espressività del pezzo, e anche l’apporto gestionale del timing di Giampaolo è servito a ridefinire l’immagine complessiva, influenzando la mia stessa esecuzione strumentale: insomma, ciascuno più che mai qui ha trovato il proprio posto nella vicenda, correttamente, e mi è piaciuta la sensazione. Eternal returns parla della ciclicità dell’esistenza, concetto mutuato dal mito dell’uroboro, il serpente in posizione circolare che rappresenta l’Universo, il suo movimento energetico apparentemente statico ma senza fine, insomma l’eterno ritorno di cui parla Nietzsche. Il brano, nella sua struttura, si rifà a questa visione, e l’ambito filosofico a questo punto mi ha fatto sembrare naturale dedicarlo ad un mio caro e vecchio amico e compagno di scuola, Francesco Saverio Nisio, professore di filosofia all’Università di Foggia. The Dolmen and the Sea, il brano più esteso del cd, è una sorta di minisuite che ho dedicato alla Puglia, terra marina per eccellenza, in cui però anche la pietra delinea il paesaggio (come accade ad esempio sulla Murgia, dove vivo, o sull’Appennino Dauno), ricca di monumenti delle civiltà arcaiche come i dolmen. La rocciosità di certi ritmi e di certe armonie contrasta in altri passaggi con il lieve sciabordio dell’acqua sulla battigia, o l’impetuosità delle onde contro gli scogli nella parte finale, una lotta di elementi e sentimenti, uno stato d’animo che mi suggerisce sempre la mia terra, con le sue gioie e i suoi dolori. Heart on a mountain è “semplicemente” una ballad molto romantica, dedicata alla mia compagna da molto tempo, Maria Pia, cui devo la spinta a pubblicare finalmente dopo anni questo lavoro, a causa anche della mia ipercriticità nei confronti della mia produzione: se una composizione originale ha poco senso, ho sempre pensato, meglio suonare musica altrui, e magari forse non è il caso di pubblicare un disco in più, visto che ne siamo circondati. Scritto praticamente su di una montagna, in Garfagnana, in un momento felice di un periodo complesso, spero restituisca la intensa serenità provata da me e da lei in quel momento particolare.Oral culture direi che è il brano più jazz del disco, ed il suo titolo è sottilmente ironico: che certe modalità con cui si è diffuso il jazz delle origini possano essere accostate a quelle della musica popolare, etnica è vero, ma sino ad un certo punto. Guardare al jazzista primigenio (in genere nero americano) come al famoso “buon selvaggio” russoiano sottendeva un certo razzismo, che voleva l’artista “improvvisatore” venuto dagli strati più bassi della società come un istintivo dotato di talento grezzo, ben diverso dal musicista colto e consapevole, in gran parte di provenienza borghese e accademica. Certo, cancellare il versante più immediato, ready-made portato ai massimi livelli in questa musica, il Jazz, sarebbe un errore, diciamo una castrazione di un carattere così immediato e contagioso, alla base del suo successo persino di massa, nei primi decenni del secolo scorso. Ma è pur vero che il Jazz è invece una musica complessa, di costruzione basata su di una perizia non solo strumentale, ma progettuale, ed è divenuto man mano tale da trasformarsi in una pura musica di arte, di nicchia. Per tornare al mio brano, la sua costruzione è stata volutamente articolata, complessa, con colori che vanno dall’atonalità sino al jazz dei primi tempi (con l’utilizzo esteso della scala esatonale, ad esempio), per sottolineare appunto la contraddizione tra questa mitologia della semplicità costruttiva e la realtà, che richiede invece un approccio anche meditato e studiato per una esecuzione efficace. Si capisce che una cultura così complessa e preziosa non può essere affidata ad una trasmissione approssimativa, passibile di modifiche magari incongrue, come appunto capita con la cultura tramandata oralmente. Lipompo’s just arrived è l’unico brano non completamente di mio pugno, è la rielaborazione in chiave elettrica di un celebre tema popolare lucano, “Mo so vinut e mo sond’arrivat”, una sorta di standard per la provincia di Matera. Il titolo fa riferimento ad una leggenda materana, che vorrebbe la gravina, il canyon su cui si affaccia il celebre rione Sassi, abitato dal lipompo, (‘u l’pemp), il lupo mannaro. La mia rielaborazione, che si sviluppa solisticamente sul più celebre giro armonico del jazz modale (quello di So What o Impressions, per intenderci), utilizza una rivisitazione a tempo dispari del giro di basso di Thriller, il famosissimo successo di Michael Jackson il cui video si basa su vari mostri, zombies e appunto lupi mannari: e l’idea finale che ho immaginato è quella di un incontro tra il lipompo e Jackson, in cui probabilmente tra i due sarà il lupo mannaro quello a spaventarsi maggiormente… L’ultimo brano di cui parlare è What was I looking for, una domanda che non prevede né punto interrogativo, né pertanto una vera risposta, ma è più una sorta di constatazione: è un jazz waltz, dalla struttura quasi canonica, di sapore lievemente amaro, che ho voluto dedicare a coloro che ad un certo finiscono per trovare ciò che avevano smesso di cercare, o che non erano neppure consapevoli di stare cercando. Tante soluzioni, tante consapevolezze ci arrivano spesso proprio in maniera inattesa e involontaria: ma per fortuna prima o poi si manifestano, e ci permettono di migliorare e maturare.



JC: The Connection è un progetto di ricerca che indubbiamente non finisce qui…


AB: Certo, lo spero fortemente! La formazione è giovane, abbiamo ancora tanto da suonare, quando presenteremo il lavoro dal vivo. E poi, come anticipavo, ho ancora parecchio materiale, tra pezzi originali e arrangiamenti di musiche altrui, da avere già praticamente pronte le scalette per un paio di cd. Spero infatti di poter tornare in sala a breve col quartetto e forse qualche ospite – più o meno celebre, non sarà questo il punto, ma invece tutto si giocherà sull’aderenza linguistica di chi coinvolgerò, quindi non pensate di trovare qualcuno dei “soliti noti” al mio fianco in futuro. E poi questo non è il solo progetto che vorrei concretizzare: come dicevo all’inizio di questa intervista, amo l’accostamento del jazz e della musica in genere con la letteratura, il teatro, la poesia in special modo, ho realizzato alcuni lavori in tal senso su miei testi, e non appena possibile, con un pizzico di fortuna e con un attore (o un’attrice, chissà) disponibile a tali commistioni, intendo realizzare qualche produzione in tal senso. Però, se permetti, vorrei concludere accennando brevemente al senso del titolo del lavoro, che dà anche il nome alla mia formazione: The Connection fa riferimento alla connessione tra le persone, alla necessità ed al senso di questa pratica, innata nell’Uomo, ma anche alla necessità basilare di ragionare, perché la comunicazione abbia un senso. E mi è piaciuto dedicarlo “a tutti coloro che lavorano per connettere, e non per dividere”, le famose persone di buona volontà, oggi così preziose e purtroppo più rare di un tempo in cui si era forse più capaci di solidarietà, una qualità che stiamo dimenticando in una spirale di disgregazione sociale. E allora, restate, restiamo connessi!




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