Above the below, il jazz di Emanuele Primavera

Foto: la copertina del disco










Above the below, il jazz di Emanuele Primavera

Emanuele Primavera, batterista e compositore siciliano ha da poco pubblicato il suo ultimo progetto intitolato Above the below. E’ un disco di spessore, dal carattere internazionale ma con una identità propria, legata alle molteplici influenze del leader. Una sintesi riuscita di quella che è la sua idea di jazz oggi.



JC: Emanuele Primavera, tu sei un batterista, compositore e leader. Come sei arrivato al jazz? Quali sono stati i tuoi studi? I tuoi batteristi di riferimento, quelli che ti hanno “indotto” a suonare la batteria?


EP: Il mio percorso è stato abbastanza delineato e tipico di un batterista che ha iniziato nella fine degli anni ’90: grunge e metal. Al jazz sono arrivato un po’ più tardi, intorno ai ventidue anni. Tutto ha avuto inizio all’età di diciannove anni con il mio trasferimento a Roma. Lì ho incontrato Ettore Mancini e Fabrizio Sferra, i miei due Maestri. I miei riferimenti iniziali sono stati batteristi dell’area rock come Ginger Baker, John Bonham e successivamente Art Blakey, Elvin Jones e Tony Williams su tutti, ma è molto riduttivo citare solo loro.



JC: Quando componi lo fai provando sulla batteria o usi qualche altro strumento?


EP: Non ho mai composto provando sulla batteria anche se ultimamente vorrei sperimentare questo metodo, forse potrei ottenere più spunti ritmici. Il più delle volte compongo i pezzi al piano o canto la linea melodica mentre mi accompagno al piano. Partendo sempre dallo strumento, giungo in un secondo momento alla scrittura, ma non è una prassi abituale perché dipende spesso dall’idea e dal suo sviluppo.



JC: Above the Below può essere definito un’evoluzione del tuo disco precedente da leader intitolato Replace?.


EP: In un certo senso sì, perché è chiaro che sono andato avanti, ma in realtà i miei due lavori sono due concetti di suono e di musica completamente diversi. In “Replace” avevo in mente qualcosa di più elettrico, che in un certo modo si legava maggiormente al mio drumming. Potrei affermare che il mio primo disco fu pensato da batterista componendo dei pezzi sui quali con il mio strumento mi sarei divertito a suonare. Con le mie composizioni in Above the below ho voluto raccontare delle storie e mi sono concentrato molto di più sulla melodia e sull’armonia. La batteria è stata un’appendice.



JC: Il tuo disco precedente era in quartetto. Questa volta suoni in quintetto con una nuova front line, Alessandro Presti e Nicola Caminiti, e un altro pianista, Alessandro Lanzoni.


EP: Sì, sono tutti musicisti che stimo tantissimo e con i quali ho condiviso tante meravigliose esperienze musicali, ma soprattutto tanti anni di bellissima amicizia. Finiti gli echi di Replace, anche a seguito del trasferimento di Fabrizio Brusca a Londra e di Seby Burgio a Roma, decisi di mettere su il gruppo con cui lavorare al mio successivo progetto. In realtà ero alla ricerca di un suono che mi facesse venire qualche idea da sviluppare. Suonai con gli altri componenti del mio quintetto in un festival siciliano e da lì partì tutto. E’ stato naturale coinvolgere Alessandro Presti, Nicola Caminiti e Carmelo Venuto, considerato che da anni suonavamo insieme. Sapevo che era quella la direzione giusta proprio per la componente di umanità oltre che per la loro grandezza musicale. Lanzoni, uno dei miei artisti preferiti, suonò con noi in quell’occasione, e da quella sera la Sicilia è la sua seconda residenza.



JC: Above the Below contiene nove composizioni originali. Il jazz suonato è a metà strada tra influenze americane, echi M-Base, minimalismo nord europeo e patrimonio isolano. Come sei arrivato a questa sorta di “melting pot”?


EP: Posso dire di essere un onnivoro di musica. Nella vita ho ascoltato di tutto e continuo ad ascoltare tantissima musica senza limiti di genere. La musica moderna è la più vicina alle mie inclinazioni artistiche, rappresenta la maggior parte dei miei ascolti e va da sé che mi influenzi. Scrivo la mia musica piuttosto di getto senza starci troppo a pensare. L’unica cosa che mi guida è il suono, da lì tutto nasce con estrema naturalezza. Il patrimonio isolano è forte, sono cresciuto con la colonna sonora delle bande per strada nelle miriadi di feste folkloriche siciliane.



JC: Quanto c’è di improvvisato e quanto di scritto nella tua musica?


EP: Dal punto di vista compositivo, tutta la musica scritta per «Above The Below» è nata da mie lunghe improvvisazioni suonate al pianoforte. Alcuni brani sono interamente improvvisati e trascritti successivamente, mentre altri nascono da piccole idee sviluppate in un secondo momento in maniera più strutturata. Nel disco ho cercato di sviluppare varietà e dinamicità in termini di scrittura. Ci sono brani, che rispettano una struttura più «tradizionale», con un tema principale seguito dall’improvvisazione dei solisti – che si basa sul giro armonico proprio della melodia – e altri come Walk Away, che presentano invece solo un tema iniziale al quale segue una parte più libera ed estemporanea, slegata da qualsiasi canone, dove i solisti e la ritmica conversano in modo organico. Poi c’è E.T.N.A. che include sia una parte solistica più legata all’armonia, sia una parte più free e modale; entrambe si alternano con ampie parti through-composed, quasi a richiamare uno stile più proprio alla musica classica. Per finire, abbiamo deciso di fare un pezzo totalmente improvvisato per sperimentare ancora di più sulla conversazione estemporanea.



JC: Più che un leader “presente”, il tuo ruolo è quello della direzione: quanta fiducia hai nei musicisti che ti hanno affiancato e come hanno interpretato le tue idee?


EP: Ho riposto massima fiducia nei miei compagni, poiché da batterista ho il compito di dare colore e un determinato andamento, ma non posso dare voce alle mie composizioni. Non ho mai pensato da leader, non fa parte del mio essere. Ognuno di loro ha interiorizzato la mia musica, contribuendo alla sua crescita per mezzo delle proprie idee e della propria musicalità, senza limiti di alcun tipo.



JC: Faresti una breve descrizione dei nove brani che compongono Above the Below, tenendo presente che probabilmente la sintesi del tuo pensiero musicale è racchiusa in Sea Lament…


EP: Walk away: il brano che apre il disco è la prima composizione per questo progetto quando quest’ultimo era solo un piccolo pensiero. Erano tempi difficili. In quel periodo la maggior parte dei musicisti con cui condividevo musica, amicizia e lavoro stavano via via lasciando l’isola, in cerca di luoghi più fortunati. Una sera, dal mio turbamento per questo triste esodo, nacque l’ostinato di piano che è l’anima del brano. ANACE: era uno dei brani destinati al cestino. Un giorno, Nicola Caminiti scelse di suonare Anace durante una sua session registrata a New York. Riuscì così a farmi cambiare idea sul valore del brano. Il titolo è l’acronimo delle iniziali dei nomi dei componenti del quintetto, un omaggio al gruppo, alla bellezza del fare musica insieme. Finding clarity in discomfort: in ordine temporale è l’ultimo brano composto, quasi a ridosso della registrazione. Nacque in realtà con lo scopo di integrare un drums solo. Si è poi sviluppato in qualcosa di diverso, divenendo un brano a tutto tondo. Black dagoes: l’offesa più comune rivolta ai meridionali italiani espatriati in Lousiana. Due parole dense di razzismo che aprono un punto di incontro, una connessione di status con gli afroamericani. Ho sempre simpatizzato per i più deboli. Diary of waiting: su un semplice tema, ho immaginato e ricercato la libertà creativa dei due musicisti che lo suonano. Un preludio a Thea e all’attesa. Thea è espressione di vita. Mia figlia Tea si è aggiunta alla famiglia e si è meritata un brano, avendo suscitato in me una valanga di emozioni. E.T.N.A. (energy tick need aching), ovvero “il movimento energetico ha bisogno del dolore”. L’energia creativa è spesso alimentata da varie forme di dolore. Il dolore arriva improvvisamente, senza preavviso, cosi come l’eruzione di un vulcano. L’ Etna è la prima cosa che guardo la mattina quando volgo lo sguardo fuori dalla finestra. Una presenza costante che diventa compagna di vita. Sea lament: ogni siciliano dotato di un cuore vero non può restare indifferente di fronte alle tragedie del Mediterraneo. Sono molto sensibile all’argomento e nel periodo in cui scrissi Sea Lament mi incuriosì vedere come il mondo dell’arte si stesse esprimendo sul tema. Restai folgorato dal docu-film “Fuocoammare” di Rosi. Sea Lament è il mio grido di dolore, un modo per reagire di fronte a questa drammatica ecatombe.



JC: Ritieni che come in letteratura, anche nella musica e in particolare nel jazz, ci siano dei fattori storici di originalità dovuti al fatto di essere isolani e siciliani?


EP: La Sicilia, com’è noto, è stata un crocevia di culture e in un certo modo continua ad esserlo. Non so se questa cosa influenzi positivamente o negativamente “l’isolitudine”; di sicuro questa condizione da isolano, conduce allo sviluppo di un pensiero originale. Crescendo ho abbandonato il sentimento isolazionista cercando di guardare oltre confine. E’ indubbio che la Sicilia abbia una potenza pazzesca nei suoni, negli scenari che offre e nel suo fortissimo folklore. Ogni siciliano, inconsapevolmente, dentro di sé viene attraversato e piacevolmente inglobato da tutto quello che genera questa isola. Tutto ciò fa la differenza e credo che incida nella vita e nell’esperienza di ogni artista siciliano.




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