Breathe, il respiro sonoro di Fabio Accardi

Foto: la copertina del disco










Breathe, il respiro sonoro di Fabio Accardi

Fabio Accardi, affermato batterista a livello internazionale, ha raccontato attraverso questa lunga intervista rilasciata per l’uscita del suo nuovo e fascinoso disco Breathe, come è diventato un jazzista e quale è la filosofia di vita che alimenta la sua arte.



Jazz Convention: Fabio Accardi, tu sei un batterista, leader e compositore. Come hai cominciato con il jazz e perché hai scelto di suonare la batteria?


Fabio Accardi: Come parecchi miei coetanei, ragazzi degli anni ’90, mi sono avvicinato al jazz attraverso il jazz rock e la fusion. A dodici anni ero un metallaro che adorava i Black Sabbath i Rainbow di Ronnie James Dio, gli Scorpions, Ozzy Osborne e soprattutto i Led Zeppelin di John Bonham, i Deep Purple e i Whitesnake di Ian Paice. Emblematica del mio avvicinamento al Jazz è stata una cassetta tdk C90 sul cui lato A c’era Fair Warning dei Van Halen, che adoravo; sul lato B, 80/81 di Pat Metheny, che non riuscivo ad ascoltare più di 3 minuti. Correva l’anno 1985, l’anno di Boris Becker diciasettenne che vince contro Ivan Lendl a Wimbledon; e l’anno di Live Aid in cui per esempio si esibisce un Metheny, allora trentenne ospite di Santana. È l’anno della colonna sonora del Gioco del Falco che spinge Pat Metheny nell’alveo delle rockstars. Comunque ho iniziato a suonare la batteria perché sono fratello d’arte di un chitarrista e cantautore, Alessandro Accardi; allora dodicenne lo seguivo alle prove e un bel giorno durante una pausa mi concessero di sedermi dietro la batteria e con grande sorpresa del gruppo fui in grado di suonare un tempo e di fare uno stacco. A furia di fissare il batterista per tante volte, successe che feci miei i movimenti e il ritmo. A tredici anni ebbi la mia prima batteria. Intanto a casa arrivava nuova musica, sopratutto strumentale. Era per me una a novità, visto che ascoltavo soprattutto canzoni. Qualcosa di più sperimentale erano i Rush di Neal Peart. Mio fratello portava a casa dischi prestati dal nuovo cantante del suo gruppo che ascoltava Jazz. Ebbi una folgorazione il giorno in cui ascoltai Spectrum di Billy Cobham. Volevo imparare a suonare così! I miei ascolti cambiarono radicalmente; ascoltavo solo musica strumentale, con molta improvvisazione e spesso di forte impatto tecnico e virtuosistico che fondeva jazz rock e funk. Quelli che ascoltavo erano soprattutto chitarristi e potete immaginare il perchè. Quindi Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, sempre con Billy Cobham alla batteria, Allan Holdsworth di Metal Fatigue, John Scofield di Electric Outlet e di Decoy e Tutu di Miles Davis, Mike Stern, Scott Henderson, e soprattutto colui che ha permeato gran parte della mia musicalità, Pat Metheny. Il 1987 fu un anno di svolta totale per me. Il 7 luglio 1987 al Teatro Petruzzelli – è ancora un giorno per me indimenticabile – ho assistito al più bel concerto della mia vita, e dopo più di trent’anni e più di duemila concerti visti, rimane ancora il più bello: Pat Metheny Group nel tour di Still Life Talking. Da li a qualche giorno partimmo per andare a seguire Umbria Jazz. Quello fu l’anno di Gil Evans Orchestra plays Jimi Hendrix con una guest superstar come Sting. Suonavano allo stadio di Perugia. Fu anche l’anno di Miles Davis e George Benson. E fu l’anno del film Round about Midnight di Bertrand Tavernier con Dexter (Dale Turner) Gordon come attore protagonista. Così a Perugia sbarcò la band del film con Pierre Michelot al basso, Billy Higgins e Bobby Hutcherson. Poi assistetti a un opening act di Stan Getz e Kenny Barron in quartetto, e vidi anche Winton e Brandford Marsalis con i loro rispettivi quartetti.



JC: Quali sono i musicisti che hanno “condizionato” le tue scelte?


FA: Come dicevo prima Pat Metheny è stato la mia più grande “source of ispiration”. Ho scoperto la bellezza della sua musica con Travels e Are you going with me, e con First Circle. Il primo approccio lo ebbi con 80/81 e non fu dei più entusiasmanti; benchè poi non ho più potuto fare a meno di quel disco di cui conosco a memoria ogni nota. Giacchè trascorrevo giornate intere a scartabellare album nei negozi di dischi, cercando ogni album in cui suonava Pat, Grazie a lui ho scoperto tantissima altra musica e tanti altri artisti che hanno permeato il mio percorso musicale. Grazie a Pat ho scoperto e cominciato ad amare la musica di Ornette Coleman in primis; poi Milton Nascimento; la musica di Steve Reich e Jerry Goldsmith. Grazie a lui, ho scoperto la dimensione sinfonica della musica e il mondo immenso e variegato delle percussioni classiche; e da li che decisi di entrare in conservatorio per studiare percussioni classiche. Volevo apprendere ed imparare tutto quanto, sopratutto a comporre musica. Il mio sogno da Pat Metheny in poi, è sempre stato quello di avere un mio gruppo con cui suonare e portare in giro la mia musica. Quindi la mia aspirazione era quella di diventare un batterista compositore, oltre a saper svolgere bene il ruolo di accompagnatore. I musicisti che hanno condizionato le mie scelte son stati quindi dei “drummers composers”. Questo è quello che hanno in comune tutti quelli che amo di più: grandi batteristi, eclettici e versatili, ma con una voce, il sound, propria, unica e riconoscibile al primo colpo. E che in più avessero sviluppato anche una dimensione compositiva: parlo di Jack deJohnette, Tony Williams, Billy Cobham, Peter Erskine, Brian Blade, Bill Stewart, Eric Harland, Kendrick Scott, Nate Wood, Mark Guiliana e Nate Smith. Sono tutti batteristi pazzeschi, a cui si aggiunge anche una spiccata vena compositiva. Ma son cresciuto anche con i Jazz Messengers di Art Blakey che pur non scrivendo musica, riuscì a tenere in piedi una band, un progetto, direi un brand, per più di trent’anni, fucina e trampolino di lancio per alcuni dei musicisti che hanno fatto la storia come Benny Golson, Wayne Shorter, Lee Morgan Freddy Hubbard e Winton Marsalis.



JC: Una parte della tua vita artistica l’hai trascorsa in Francia. Cosa resta di quella esperienza? Cosa hai imparato dai francesi?


FA: Mi resta tantissimo, anzi di più. Ho vissuto a Parigi dal 2002 al 2009. Nel 2006 mi son diplomato al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza, dopo aver studiato anche con Beniamino Forestiere al Piccinni di Bari ed essermi diplomato in percussioni classiche a Verona con il grandissimo Saverio Tasca. A Parigi ho avuto la chance di studiare con Daniel Humair, Dré Pallemaerts, Glenn Ferris e Riccardo del Fra e di fare masterclass full-immersion e di suonare con Bill Holmann, Martial Solal, Billy Hart e Joey Baron. Li ho imparato a scrivere musica per ogni tipo di organico dal quartetto alla Big Band. Avevo avuto anche la chance di poter scrivere per orchestra sinfonica, ma confesso che all’epoca (2004) mi mancavano ancora degli “skills” ed ero completamente assorbito dallo studio delle percussioni. I francesi dal punto di vista dell’organizzazione musicale sono infallibili: grandi arrangiatori, compositori, ed improvvisatori. Forse, è una mia modestissima opinione, manca loro una certa vena poetica nell’improvvisazione che a noi italiani non manca quando penso a Urbani, Di Battista, Rava, Fresu, Bearzatti e Tonolo.



JC: Essendo tu uno dei massimi esponenti, esiste secondo te una scuola o un laboratorio di jazz barese vera e propria? E se si cosa la caratterizza? Il suono, la melodia, la ricerca…


FA: Grazie del tuo apprezzamento, Flavio. Secondo me assolutamente si, esiste una scuola barese che ha la sua originalità e una sua storia. Storia che per quanto mi riguarda comincia tra i ranghi del Fez, e sull’onda di quel movimento artistico che chiamano Acid Jazz, grazie ai quali ho scoperto e amato alla follia. Ho vissuto sulla mia pelle l’estetica ed il sound del jazz Blue Note tinto di hard-bop, soul jazz, gospel e funk. In quel periodo, sto parlando del 1995-98, mi diedero la possibilità di mettere su anche un sestetto hardbop sulla scia dei Jazz Messengers. Si chiamavano The Jazz Convention, un gruppo tra le cui fila c’erano ragazzini come Fabrizio Bosso,Gianluca Petrella, Gaetano Partipilo Giuseppe Bassi ed un giovane pianista di nome Stefano e di cognome Bollani. Nel ’96 registrammo un disco dal titolo Up up with the Jazz Convention prodotto da Nicola Conte, uscito per la Schema Records (che poi avrebbe prodotto Mario Biondi) con brani originali di Bollani, Partipilo e Bassi e reprises di Andrew Hill, Lee Morgan e Duke Pearson. Comunque dovendo individuare delle caratteristiche precise nella scuola barese, potrei dire che è così ricca e varia e allo stesso tempo ben connotata da un estremo senso lirico nelle composizioni. Il senso del blues non ci manca; una altrettante varietà ritmica e armonie semplici e funzionali al discorso melodico. Abbiamo sfornato grandissimi artisti ed improvvisatori quali Roberto Ottaviano, Gianni Lenoci, Gianluca Petrella, Gaetano Partipilo, Mirko Signorile, Vince Abbracciante, Raffaele Casarano, Carolina Bubbico. Voglio anche citare un pianista pazzesco che ho avuto il piacere di ospitare nel mio primo disco Arcoiris, si tratta del brindisino Nicola Andrioli: un genio!



JC: Il tuo nuovo disco si chiama Breathe e si colloca sulla stessa lunghezza d’onda del precedente Precious, almeno dal punto di vista spirituale e poetico. C’è un forte legame tra sensibilità ambientale e musica…


FA: Un legame indissolubile che fa parte della mia aspirazione verso un’armonia con l’ambiente e con la Natura come mezzo per un’armonia interiore. Breathe is Precious come è “precious” l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo ed il cibo con il quale ci nutriamo. Significa dare il giusto valore a cose che sono vitali per noi e che diamo sempre per eterne e scontate. Ma non è così! Breathe è respirare con consapevolezza. La chiamano meditazione, ma anche fare sport implica una respirazione consapevole; per non parlare del fare musica che vuol dire Respirare ed essere consapevoli non solo della fisicità degli strumenti a fiato, ovviamente, ma anche di tutti gli strumenti. Mi riferisco soprattutto al discorso musicale: respirare e far respirare la musica ed il sound, in una sola parola, il GROOVE. È da un po’ che quando parlo di Groove, parlo di giusto respiro e del respirare assieme dei musicisti di una band. Respirare consapevolmente significa contemplare, comprendere, e raccogliere le energie necessarie all’azione. Significa gustare lentamente l’esperienza che facciamo: lentezza vuol dire profondità, intensità e passione.



JC: Ascoltando Breathe, oltre a cogliere un retroterra sonoro legato al primo Metheny, di cui Francesco Poeti sembra molto affine, c’è un palese mix di influenze contemporanee che sintetizzi in maniera originale, facendo leva su melodia e timbrica.


FA: Non posso che essere d’accordo con questo. Metheny viene sempre fuori e comunque, anche se, lo confesso, ho smesso di ascoltarlo intensamente dal disco Imaginary Day. In realtà vengono fuori anche le sue di influenze di cui io stesso ho goduto. Parlo di Milton Nascimento e di Toninho Horta, due artisti che amo alla follia. Questo disco è un elogio della lentezza e della discrezione. L’album inizia con un solo di contrabbasso su un brano slow poggiato su un groove rock che ricorda Perfect Day di Lou Reed e finisce con un pezzo costruito su un groove RnB che ombreggia Natural Woman di Aretha Franklin. Nel mezzo del disco si trova un Bene Mi Fa che è ispirato da Ecotopia degli Oregon. Quindi un jazz waltz tinto di gospel in A talk with God che tradurrei in “Due chiacchiere con Dio”. Quindi Lullaby for a little angel una ballad lirica e soave dedicata all’infanzia negata. Essa trae ispirazione dalla foto del corpo esanime di Alan Kurdi, il bimbo siriano di origine curda trovato morto su una spiaggia a Bodrum in Turchia. Poi c’è un brano dal sound newyorkese intitolato Oxygen,una composizione fortemente percussiva che gioca sul groove in 7/4 ed estendendosi a più livelli dal 7/2 al 7/8, passando per il 7/4, appunto. Il titolo provvisorio di questo brano era “Settebello”. Poi l’ho chiamato Oxygen, perché è un brano in cui si viaggia velocemente e quindi manca un po’ l’ossigeno. Inoltre mi piace il suono della parola. Mi ricorda un brano della mia infanzia di Jean Michael Jarre intitolato Oxygen. Nella versione in vinile è presente l’altra cover del disco. È lo standard di Eden Abhez Nature Boy interpretata magistralmente da serena forte braccio. Un titolo emblematico – il tema è completamente riarmonizzato e costruito su un mio arrangiamento con un mood soulful su un groove lite funk con le spazzole -, in cui l’uomo riscopre l’essenza del vivere tutt’uno con la natura. È una canzone manifesto della cultura hippy ante litteram, ma anche di prendersi cura e preservare il bambino che è in noi. Un perseguire un modo di vivere e vedere il mondo scevro dai condizionamenti della società di massa e dei consumi.



JC: Dunque, il disco contiene sette composizioni di cui sei scritte da e una, Daydreaming, dei Radiohead. Il pezzo si integra perfettamente con gli altri brani…


FA: Siamo tutti fan dei Radiohead! Molti di noi jazzisti lo siamo da quando Brad Mehldau ha cominciato a realizzare delle versioni tutte sue di Paranoid Android e di Knives. Un mio caro amico nonché coproduttore del mio disco Whispers e di Precious, credo nel 2016, mi mandò il video di Daydeaming. Mi sono detto: questo brano devo assolutamente suonarlo! L’ho imparato al pianoforte e pure cantato. Ho deciso di includerlo in Breathe per la sua dimensione ariosa e onirica e perché non c’era la batteria. Ne abbiamo fatto una similare ma dalle valenze cosmiche, in cui il contrabbasso di Giorgio Vendola ha fatto la parte del leone; è un viaggio negli spazi siderali ai confini dell’universo spazio/temporale, e a quello interiore dell’inconscio.



JC: Breathe è suonato da una squadra di fuoriclasse. Come hai messo insieme questi musicisti e se condividono la tua stessa spiritualità e sensibilità.


FA: È un Dream Team pazzesco. Con Gaetano Partipilo suoniamo da quando avevamo vent’anni anni e abbiamo condiviso tour e dischi sin dai tempi del Quintetto X, del Fez Combo e dei The Jazz Convention. Abbiamo suonato insieme con Greg Osby, Dave Liebman, Robin Eubanks, Mike Moreno e John Escreet. Assieme a Mauro Gargano abbiamo un trio i Three Moons con cui ci divertiamo a dissacrare e ad integrare alcune chicche della baresità più verace e profonda con il jazz. È improvvisazione sperimentale e audace, ma spontanea ed ironica al contempo. Anche con Giorgio Vendola suono da più vent’anni anni. Abbiamo cominciato assieme a Gaetano Partipilo e Mirko Signorile a scoprire e sperimentare il Jazz. In particolare nel progetto Magnolia di Mirko Signorile, con Cesare Pastanella alle percussioni. Con Vince Abbracciante abbiamo un trio stabile dal 2013 il SudesTrio, mentre con Claudio Filippini suoniamo dai tempi della reunion dei The Jazz Convention con Bosso, Bassi e Partipilo. Abbiamo suonato molto insieme anche quando vivevo a Roma. Un genio, uno dei musicisti piùeclettici con cui abbia mai suonato. Conosce la tradizione come pochi, ma non ha esitazioni quando deve osare e sperimentare. Lo fa sempre con coraggio, lucidità e un pizzico di ironia, quando ci vuole. Francesco Poeti, di nome e di fatto, è stato un amore a primo udito, sia quando abbiamo avuto l’occasione di suonare insieme che quando avemmo lo ho ascoltato a Matera con il gruppo di Ettore Fioravanti. Li ebbi la conferma che quello era il soun che cercavo da sempre.



JC: Si potrebbe dire che Breathe, tra tutti gli altri, è il tuo disco più compiuto dal punto di vista musicale e contenutistico?


FA: Beh, entra in ballo l’esperienza, la maturità, la chiarezza di intenti. Dal punto di vista musicale lo è anche Precious, secondo me. Whispers ha la sua magia e la sua poetica. Dal punto di vista contenutistico assolutamente si. Da Precious in poi, ho cominciato ad avere l’esigenza di realizzare dei concept album, così da poter esprimere la mia visione del mondo e con i quali poter far assurgere alla mia musica una funzione etica. La musica è il fine ma può essere anche il mezzo attraverso il quale ricordare certe dinamiche, certe situazioni difficili o addirittura pericolose. Essa può anche ricordare di non dare mai per scontata l’integrità della natura, l’integrità spirituale e quella della democrazia, per citare Obama. E se ne vogliamo usare ancora un’altra citazione prendiamo Battiato: tutto ha bisogno della nostra Cura, non solo in senso medico, cioè di terapia, ma di prendersi cura e avere cura, quindi prevedendo e prevenendo sintomi ed effetti collaterali della nostra condotta discutibile nei riguardi dell’ambiente.




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