Foto: la copertina del disco
“Mah”, Sword Records e “Jazz Investigation”: Roberto Spadoni tra musica e web
Nove brani originali firmati da Roberto Spadoni, affidati ad un quartetto di musicisti esperti. In “Mah”, da una parte, il chitarrista esplora le possibilità contenute nei codici del jazz prendendo le mosse dalle fondamenta solide del linguaggio e, dall’altra, propone il suo punto di vista sui fatti dell’attualità e sul mondo di oggi, un punto di vista personale e disilluso – anche critico e ruvido, se si vuole, ma condito, come rivelano alcuni titoli, da una punta di ironia e da una vena di nostalgia.
La consistente esperienza dei singoli e l’interplay che nasce all’interno del quartetto danno un carattere essenziale e diretto alla musica di Spadoni: un lavoro denso ma senza elementi ridondanti o ripetizioni. Un lavoro soprattutto in cui il chitarrista porta le tante e diverse esperienze acquisite nei ruoli di interprete, compositore, arrangiatore, direttore, insegnante e scrittore. Una visione musicale sfaccettata che abbiamo approfondito direttamente insieme al protagonista.
Jazz Convention: Composizione, suono, interplay: come hai miscelato i vari elementi per arrivare ai nove brani originali che ascoltiamo in “Mah”?
Roberto Spadoni: Questi brani fanno parte di un corpus che raccoglie composizioni immaginate per essere suonate in situazioni intime, in piccolo gruppo. Alcune poi vengono destinate anche al repertorio orchestrale e a quel punto è come se vivessero una doppia vita tra combo e orchestra. In questo processo immaginativo, cerco di sentire dentro di me quale possa essere il sound del brano, anche pensando a strumentazioni diverse. Nella composizione, poi, cerco sempre di tenere presenti alcune cose secondo me importanti. Il senso dello spazio – per creare ambienti in cui possano interagire la sezione ritmica o qualche linea in contrappunto; la scrittura (poli)metrica e (poli)ritmica che tenga sempre viva l’attenzione di chi ascolta; l’adozione e insieme la trasfigurazione di elementi propri del linguaggio jazz, siano essi delle citazioni o dei modelli melodici caratteristici; un linguaggio armonico tradizionale e innovativo allo stesso tempo.
JC: Il rapporto con le tradizioni e con i grandi maestri del jazz è un filo costante nel tuo percorso. Penso a lavori come “Mingus, Cuernavaca” o “Sphere”, lavoro dedicato a Monk. In “Mah”, hai giocato con la formula del quartetto guidato da sassofono e chitarra e hai composto nuova musica partendo dal “binario” degli standards: come hai sviluppato il materiale e quali erano i tuoi obiettivi espressivi?
RS: In “Mah” c’è una esplorazione e uno sviluppo in tante direzioni della forma song, che è stata per tanti anni (ed è ancora) una cornice all’interno del quale tantissimi maestri del jazz si sono espressi. E anche io scopro sempre di più di esservi molto legato, ma non in forma esclusiva. Quindi alcuni brani sono dei cosiddetti contrafact – temi scritti su armonie preesistenti – in song di 32 misure, come “Remore Morali”; altri sono costruiti in vario modo nella più classica delle forme, AABA, come “Mah”, “Borgo Antico”, “Girotondo”; altri con forme più articolate come “Imprevisti”, “Fuga di Notizie” o “Ce La Posso Fare”, ma pur sempre delle song. Poi ci sono i titoli, tutti in italiano, che legano ogni brano a un qualcosa che voglio raccontare: il senso del racconto in musica è una cosa che mi ha da sempre affascinato, che dà senso alle note e ai ritmi. A questo proposito, nella pagina del mio sito web che ho dedicato a “Mah” (robertospadoni.com/mah) alcuni di questi “racconti” sono svelati, a mo’ di guida all’ascolto.
JC: Quanto ha influito la scelta di suonare con tre musicisti esperti ed estremamente solidi nei diversi linguaggi del jazz?
RS: Per quanto riguarda l’organico, la scelta è stata quella di una formazione “leggera” che riuscisse a operare in trasparenza e con un alto coinvolgimento colloquiale, con una sonorità calda, avvolgente, intima e divertita allo stesso tempo. Con queste idee in mente, posso dire che i miei compagni di viaggio sono stati una scelta ottimale. Conosco tutti loro da molti anni e ci sono state in passato occasioni di collaborazione tra noi. Fabio Petretti, Paolo Ghetti e Massimo Manzi: sapevo che avrei potuto contare su un equipaggio speciale, agile, esperto, con persone che si immergono nella musica con grande feeling e senza pericolosi istinti di affermazione personale, di esibizionismo sterile. Quello che a me piace di questo disco è il modo in cui abbiamo suonato “insieme”, interpretando tutte le esecuzioni in modo corale, semplice, sincero. Per noi è stato bellissimo, mi auguro che ciò si percepisca.
JC: Hai spesso legato il tuo nome a contesti ampi – come la big band o formazioni come in nonetto di “Panta Rei” – e, di conseguenza, hai messo spesso in risalto la tua visione più squisitamente orchestrale del jazz. In un combo ristretto come il quartetto come emerge e si sviluppa questa dimensione? O, al contrario, come la tieni a bada?
RS: Paradossalmente, rispetto a un ensemble orchestrale, in un combo ristretto si esercita molto meno controllo sui musicisti e sulle esecuzioni. A parte la progettazione della forma, della sequenza degli eventi, poi c’è grande libertà da parte di chi suona e interagisce con gli altri componenti. È una libertà necessaria per dare spontaneità alla musica, per lasciarsi sorprendere dallo sviluppo che un brano può avere. Da questo punto di vista cerco sempre di avere la massima apertura mentale e mi preoccupo sempre che chi suona la mia musica – che diventa “nostra” una volta suonata – sia contento, soddisfatto, che si diverta senza dipendere troppo dalle mie aspettative.
JC: Spesso la scena del jazz italiano si suddivide in scene jazz locali, impermeabili per molte contingenze: “Mah” è l’ennesima testimonianza del tuo percorso che non è solamente centrato su Roma ma che ti ha portato a condividere esperienze un po’ in tutta Italia…
RS: Nemo profeta in patria… Sono fortunato, ho avuto modo negli anni di viaggiare tanto e collaborare con tante realtà musicali in Italia, realizzando progetti importanti. Al contrario, la mia presenza nella capitale si è sempre più affievolita e negli ultimi anni sono quasi sparito da Roma. Tutto non si può fare, non si può essere dappertutto. Però, in questo lungo peregrinare, ho potuto incontrare tantissimi musicisti ottimi che come un grande sistema linfatico portano la bellezza del jazz in tutta la nostra bella Italia. Tutto ciò ha influenzato anche la mia produzione musicale, tanti brani sono stati concepiti durante questi spostamenti o soggiorni. Parte di questo repertorio si è concretizzato nel cd “Travel Music” (Alfamusic, 2016), registrato a Riva del Garda con la meravigliosa New Project Jazz Orchestra, con cui ho realizzato anche il progetto “Sphere” dedicato a Monk e altri dischi. Citerei anche un’altra bellissima realtà, l’Orchestra Jazz della Sardegna, con la quale ho realizzato tanti concerti a Sassari e in Sardegna. E poi tante altre ancora: Jazzlife Orchestra (Ferrara), Siena Jazz Orchestra (che dirigo da dieci anni), Sidma Jazz Orchestra (Chieti), M.J. Ùrkestra (Roma) e tante orchestre di conservatori italiani (Napoli, Adria, Rovigo, Trento, Vicenza, Frosinone, Ferrara e via dicendo).
JC: “Mah” esce per Sword Records, la tua etichetta personale appena fondata, e lo stai lanciando con un lavoro capillare che unisce, in modo creativo, il rapporto personale e tecniche di web marketing. È la tua risposta ad un mercato difficile da “aggredire”: come sei arrivato alla scelta dell’etichetta e come hai architettato la promozione del disco?
RS: Guardando come vanno le cose oggi, ci sarebbe da dire «Un Pazzo!» È probabile… La Sword Records è stata una scelta che ho meditato per lungo tempo. Alla fine mi sono deciso. Mi coinvolge ed entusiasma molto l’idea di poter seguire una produzione in tutte le fasi: dalla composizione alla registrazione, dalla progettazione della grafica alla stampa e poi alla distribuzione fisica del cd e alla diffusione nelle piattaforme di streaming. Ma come hai intuito c’è un progetto più ampio su cui mi sto concentrando da circa un anno. L’occasione per fermare i motori e riflettere profondamente è stato il primo lockdown: è stato in quei giorni così irreali che ho deciso di fare alcuni passi che avrei dovuto fare da tempo. Come prima cosa ho costruito il mio sito web, non ne avevo mai avuto uno. Un luogo nel mare sterminato del web che mi rappresenti, in cui mettere le cose che faccio e quelle che ho fatto: quindi ho dovuto attivare una lunga serie di cose per metterlo on line, dopo averlo progettato. Il secondo passo è stato inaugurare una newsletter per entrare in contatto diretto con tante persone: una esperienza bellissima e piena di feedback. Poi ho ripreso in mano i canali social, soprattutto la pagina artista su Facebook (facebook.com/robertospadonijazz) e su Instagram (instagram.com/roberto.spadoni.music). E poi la presenza nelle piattaforme di streaming musicale: YouTube, Spotify, Bandcamp, Deezer e così via. Il fine di tutto questo lavoro era quello di raccogliere una comunità che fosse interessata alle cose che faccio: concerti, libri, cd, masterclass, conferenze. Ho voluto dire, nel mare magnum del web: «Ecco, io sono qui, se ti interessa vienimi a trovare, ti dirò quello che faccio e che ti posso offrire.» E poi, da ottobre, è nata la nuova avventura, la Sword Records.
Il primo disco, “Mah”, ha avuto in un certo senso due nascite: una anteprima in cui ho realizzato una vendita esclusiva rivolta solo agli iscritti alla newsletter. Successivamente ho avviato la distribuzione in tutti i canali e store digitali.
JC: Una strategia in cui il tuo nuovo sito diventa uno strumento del tutto centrale…
RS: Si, come dicevo il nuovo sito è il centro delle mie attività e lo sarà sempre di più. L’ultimo isolotto di questo arcipelago è “Jazz Investigation” (robertospadoni.com/members/signup), affiorato in queste ultime settimane: nel sito ho inaugurato un’area riservata dove ho iniziato a pubblicare una serie di saggi, studi, analisi riguardanti i protagonisti del jazz, i capolavori, la storia. Basta andare sulla home page del mio sito, cliccare sull’area riservata dalla homepage e creare il proprio account gratuitamente. Nelle prime quattro settimane più di duecentocinquanta persone si sono iscritte e seguono questa nuova avventura: la comunità continua a crescere e invito, naturalmente, tutti i lettori di Jazz Convention ad aderire.
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