Foto: Valerio Averono
Open Papyrus Jazz Festival. Edizione 41 (Parte Prima)
Ivrea – 3/5.9.2021
L’Open di Ivrea giunge alla quarantunesima edizione e si pone come uno dei festival italiani più longevi, preceduto solo da Pescara e da Umbria Jazz. Come d’abitudine, il direttore artistico Massimo Barbiero cerca di mescolare le carte, offrendo un cartellone ben diversificato nella tre giorni di programmazione coincidenti con il primo fine settimana di settembre.
Si comincia nella Sala S. Marta, il tre settembre, con la presentazione del libro di Flavio Caprera “Franco D’Andrea: un ritratto”. A fianco dell’autore siedono Luciano Viotto, brillante studioso, scrittore ed editore torinese, oltre a Davide Gamba, in rappresentanza della libreria Mondadori. Caprera illustra la qualità estetica, il metodo di lavoro e l’estrema coerenza di D’Andrea, sviluppando gli argomenti attraverso una serie di esempi e di testimonianze atte ad avvalorare le sue tesi. Il volume è prezioso perché non esiste un’altra opera dedicata al pianista meranese di tale spessore e poiché contiene informazioni di prima mano, desunte da lunghi e ripetuti colloqui con il musicista e da contatti con addetti al lavoro qualificati. Sono particolarmente interessanti, poi, le considerazioni critiche del collaboratore di jazz convention, ad esempio, sull’ultima svolta della carriera artistica di D’Andrea. «A questo punto Franco ha ripreso le conquiste del Davis elettrico e le ha ibridate con Monk tirandoci fuori ritmo e timbrica totalmente originali.» A ottant’anni D’Andrea, perciò, è ancora un ricercatore e un capofila, oltre gli stretti confini nazionali. Un testo come questo, che ripercorre le tappe di un cammino sempre in ascesa, era quasi un atto dovuto da parte del giornalismo specializzato verso uno dei personaggi più importanti del jazz italiano.
Alle 19.30, si appropriano della scena Emanuele Sartoris e Daniele Di Bonaventura, che hanno da pochi mesi pubblicato il cd “Notturni” per la Caligola records. Il concerto ripropone nello stesso ordine del disco le nove tracce. Si comincia e si finisce con Chopin. In mezzo ci sono composizioni originali, per la maggior parte del pianista piemontese. I due dialogano su un terreno classico, dove prevalgono i toni romantici e intimisti. Sartoris, per indole e formazione, infioretta il suo fraseggio di un numero abbondante di note. Di Bonaventura, con il bandoneon, è più parco e si inserisce nel discorso con interventi carichi di lirismo e di calore. I due si completano efficacemente a vicenda e riescono ad eseguire in coppia su uno stesso pianoforte un pezzo, rivelando un’intesa ragguardevole. Si chiude fra gli applausi del pubblico la prima esibizione dell’open, a suggello di una bella pagina di musica indefinibile, non incasellata in uno stile specifico.
Lo stesso direttore artistico Massimo Barbiero sostiene, infatti, per rinforzare il concetto, che il festival vuol continuare ad abbattere gli steccati fra un genere e l’altro, senza preclusioni di sorta.
Alle 21.15 nel cortile del Museo Garda sale sul palco il gruppo di Helga Plankensteiner per un progetto dedicato a “Jelly Roll” Morton. La formazione conta su tre strumenti gravi, la leader al sax baritono, Achille Succi al clarinetto basso e Glauco Benedetti alla tuba, più le tastiere di Michael Losch e la batteria di Marco Soldà.
L’approccio al repertorio di Jelly Roll è all’insegna del divertimento, un divertimento pensato e organizzato, e punta molto sui timbro basso della front-line dei fiati. Si creano, così, polifonie assortite, con un intreccio ammaliante fra le ance e il sousaphone, fino allo svolgimento di assoli sempre ricoperti da una patina vintage, ma moderni nello spirito e nell’esposizione. Tastiere e batteria, da parte loro, imbastiscono un accompagnamento dove il dixieland si incontra con il funky in maniera consequenziale, senza scorciatoie o salti in avanti estemporanei. La macchina gira a pieno regime ed è un piacere riascoltare perle come Black Porter stomp o Boogaboo in queste versioni rispettose dell’originale, con qualche elemento innovativo, non irriguardose, però, verso la figura di un grandissimo della storia del jazz.
Spetta, poi, a Ralph Towner concludere la prima serata. Il chitarrista americano torna a Ivrea dopo essersi esibito già in solo e con gli Oregon all’interno della rassegna in precedenti edizioni. Anche per questa occasione il polistrumentista di Chehalis si presenta unicamente con la chitarra classica. Il repertorio scelto è formato in larga parte di brani nuovi, composti durante la pandemia, oltre a evergreen degli Oregon e ad altri prelievi dalla sua ricca discografia targata ECM. Il chitarrista siede al centro della scena e snocciola una dopo l’altra le sue elaborazioni, aggiungendo ogni tanto qualche parola, più spesso concentrandosi unicamente sul suo atto narrativo. Non si può dire, cioè, che lo stesso mostri un atteggiamento piacione, accattivante nei confronti dell pubblico. Al massimo si limita a ringraziare in maniera sobria e sorniona per gli applausi, ritornando un attimo dopo sul pezzo, per non perdere il sottile e inafferrabile legame con l’ispirazione, si direbbe. Si apprezzano la sapienza di Towner nel modellare arpeggi eloquenti e la sua capacità nel seguire una linea creativa logica nel dipanare i temi. Il chitarrista è, infatti, un raffinato realizzatore di melodie, che contengono residui di country, di folklore, in motivi dove prevale un sentimento di tipo malinconico. I toni, inoltre, sono pensosi e raccolti. L’esibizione è per palati fini, insomma, ma arriva magnificamente agli spettatori che festeggiano caldamente il ritorno del leader degli Oregon nel Canavese alla fine della performance.
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