Dodicilune Dischi – ED514 – 2022
Sergio Armaroli: vibrafono, chromatic balafon
Giancarlo Schiaffini: trombone
Giovanni Maier: contrabbasso
Urban Kušar: batteria, percussioni
Nel precedente “Deconstructing Monk in Africa” Armaroli e Schiaffini recuperavano alcuni temi monkiani all’interno di un flusso sonoro solcato da arie etniche di matrice africana, messe in circolo per mezzo di nastri preregistrati. Si trattava di un atto di riappropriazione dei brani del grande musicista afroamericano di secondo livello, mediato intellettualmente, distante dalla semplice riproposta, cioè, dall’esito, comunque, sicuramente confortante. In questo nuovo lavoro opera un quartetto, non più un duo. Armaroli e Schiaffini hanno arruolato, infatti, Giovanni Maier e Urban Kušar. I quattro protagonisti dell’incisione possiedono un linguaggio e un atteggiamento comuni in rapporto con la musica in generale. Sono personalità che intendono il jazz come un terreno su cui sperimentare. Sono personaggi aperti alla ricerca di nuove commistioni e ad una rilettura della tradizione priva di lacci o di remore, condotta in maniera disinibita e creativa e, per questa ragione, in fin dei conti, maggiormente rispettosa.
Va precisato, prima di tutto, che il confronto con il repertorio del grande “Sphere” è diretto, senza sovrastrutture di sorta. In questo cd trapela, poi, nel quartetto, un’analoga passione per il blues d’autore, rivisitato quanto si vuole, rivoltato come un calzino, magari, che serpeggia o prende decisamente campo in ogni anfratto delle undici tracce. I pezzi, tutti per l’appunto blues, sono interpretati piuttosto fedelmente e sono esposti, di norma, dal vibrafono o dal balafon, mentre la base ritmica alterna sequenze in cui swinga con gusto e concretezza ad altre in cui suggerisce scenari più o meno astratti. Giancarlo Schiaffini, da parte sua, assume il ruolo di battitore libero. Il trombonista spara bordate ruvide, oppure punteggia, commenta il discorso intavolato dai partners, o apre e chiude succose parentesi.
Giovanni Maier raddoppia a volte la voce narrante il motivo, o si esibisce in un accompagnamento tetragono, di grande solidità. Negli assoli è praticamente sontuoso. Come si suol dire in questi casi, non mette mai una nota fuori posto, né qualcosa in eccesso, né in difetto.
Urban Kušar, percussionista sloveno di scuola Zlatko Kau?i?, abituato a far suonare, quindi, qualsiasi tipo di oggetto, usa la batteria in maniera quasi canonica, assicurando una spinta, una propulsione ritmica bilanciata, rivelando la capacità di rimarcare il tempo regolarmente o di uscirne fuori, a sua discrezione, seguendo un percorso fruttuosamente discordante.
Sergio Armaroli, soprattutto con il balafon, assicura una continuità timbrica con il precedente disco, perché la tesi di fondo è in un certo senso analoga, collegare, cioè, il mondo monkiano alle sue origini africane.
“Monkish, round About Thelonious” è un album che si aggiunge ai tanti tributi, alle frequenti riletture realizzate in questi anni del songbook del compositore di Rocky Mount. In quest’opera, infine, il valore individuale e collettivo dei componenti della band e la consistenza delle loro idee garantiscono la qualità di una proposta modernissima eppure aggrappata alla tradizione come poche.
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