ECM Records – 2022
Mark Turner: sax tenore
Jason Palmer: tromba
Joe Martin: contrabbasso
Jonathan Pinson: batteria
Mark Turner assembla un quartetto ben assortito per questa sua ultima incisione per la Ecm. Dei partners presenti in “Late of Heaven”, pubblicato nel 2014, sempre dalla label di Manfred Eicher, è rimasto solo il bassista Joe Martin. Il trombettista Jason Palmer, strumentista eclettico, molto richiesto nel giro del jazz moderno ed emancipato, sostituisce Avishai Cohen. Alla batteria siede Jonathan Pinson, talento emergente, già collaboratore di giovani leoni quali Kamasi Washington o Marquis Hill, al posto di Marcus Gilmore.
La musica del cd si snoda mobile, priva di una vera stabilità intrinseca. I motivi vengono esposti dai due fiati spesso all’unisono. Successivamente tromba e sassofono dialogano a canone o in contrappunto, prima di involarsi in assoli lunghi, ricchi di argomenti, dagli spigoli appena smussati. C’è energia nel loro eloquio, cioè, ma non fuoco incandescente. Basso e batteria si muovono secondo il principio di una libertà asimmetrica e sorvegliata. Insomma c’è un certo contrasto, ovviamente voluto, fra la parte tematica e armonica e quella ritmica. Questa contrapposizione, che si trasforma a gioco lungo in collisione, meglio in condivisione, costituisce il vero appeal di queste otto tracce.
Mark Turner mette in mostra un suono scuro, ben scandito e un fraseggio ricco di pieghe, di increspature, di passaggi carichi di note, con raffiche che partono all’improvviso. Il tutto è tenuto adeguatamente sotto controllo in ogni circostanza.
Jason Palmer sfodera un timbro e un fraseggio nel genere delle incisioni Blue Note degli anni cinquanta, rifacendosi a Booker Little, a Lee Morgan, come referenti autorevoli. La sua non è, però, la voce antica in un quartetto del giorno d’oggi. I suoi agganci ai grandi del passato sono palpabili, sì, ma il suo mood è comunque attualissimo.
Joe Martin e Jonathan Pinson, come accennato, sono una coppia autorizzata a scombussolare la regolarità del flusso sonoro dei due fiati. Vale a dire che il loro non accompagnamento in senso stretto, è ampiamente programmato dal bandleader. La batteria inventa figure ritmiche assortite, lambendo il funky o altri stili, in modo ingegnoso, mai invadendo il campo dei colleghi, ma, allo stesso tempo, mai restando in un angolo ad assistere passivamente a quanto allestiscono i compagni d’avventura. Joe Martin, da parte sua, svolge un lavoro continuo e prezioso di propulsione e di rinforzo, fungendo pure da collante fra i fiati e le percussioni.
“Return from the Stars”, infine, è un’ulteriore prova della maturità come autore e come leader di Mark Turner, un musicista che sa costruire un jazz modernissimo e di sicura attrattiva, attingendo dalla tradizione e dalla contemporaneità in modo colto e personale. Il jazz dell’ultimo decennio e del prossimo futuro passa certamente dalle parti di Mark Turner…
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